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Le frasi più belle su Napoli nei libri di Valeria Parrella

Valeria Parrella torna alla forma racconto con il nuovo libro “Troppa importanza all’amore”, che segue il romanzo “Tempo di imparare”. Ancora una volta Napoli, la sua città, è una delle protagoniste delle sue storie.
A cura di Redazione Napoli
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Valeria Parrella (foto di Riccardo Siano)
Valeria Parrella (foto di Riccardo Siano)

Valeria Parrella torna ai racconti, la dimensione che prima con "Mosca più balena" e poi con "Per grazia ricevuta" (entrambi pubblicati dalla romana minimumfax) hanno lanciato la scrittrice napoletana nel gotha della letteratura italiana. A quei due libri – il primo dei quali premiato con il Premio Campiello Opera Prima e il secondo, invece, arrivato nella cinquina finale del Premio Strega -, poi, nel tempo, si sono aggiunti quattro romanzi e diversi testi teatrali che in un modo o nell'altro hanno sempre avuto Napoli come una delle protagoniste principali. Perché è quello della città partenopea lo sfondo di tutti i libri della scrittrice. Una città amata – al punto da farle fondare assieme ad altri scrittori e giornalisti un Festival letterario – ma a cui non risparmia nulla.

"Troppa importanza all'amore", il ritorno al racconto

Si chiama "Troppa importanza all'amore" quest'ultimo libro (come al solito per Einaudi), in cui la Parrella lascia per un istante la forma lunga per tornare alle origini:

Quando scrivo racconti sono sempre felice: mi sento in un territorio mio. Credo che siano la misura giusta per i nostri giorni, il tempo tronco, caduco, veloce, rubato: leggere, e poi continuare la giornata. Scrivo racconti quando sento che la realtà è troppo sfuggente e varia per essere cristallizzata in una forma lunga. E scrivo racconti perché mi interessano gli esseri umani: donne e uomini solitari che combattono le loro solitarie guerre. Ma soprattutto, io credo che il racconto sappia parlare di amore così come l'amore è: incompleto e sghembo

E anche questa volta la città ha un posto particolare tra queste pagine. Abbiamo scelto alcuni passaggi che vedono Napoli e i napoletani protagonisti delle parole di Valeria Parrella.

Frasi da "Troppa importanza all'amore"

  • I meridionali pranzano tardi, tardissimo, ma alle 15.55 anche i tavoli di un’antica pizzeria cittadina sono tutti vuoti. Il pizzaiolo e quello che lo aiuta al forno guardano una serie in tv; il proprietario chiude la cassa e va a fare il primo versamento al bancomat della filiale. Il ragazzo delle consegne chiama la fidanzata seduto di traverso sul motorino. Se qualche tedesco sputato fuori dal museo nazionale guarda voglioso verso la porta a vetri, il lavapiatti scuote la testa e fa con le mani a sliding doors: ≪Closed≫ dice piano scandendo tutte le sillabe, anche quelle che non si pronunziano. (da Il giorno dopo la festa)
  • Napoli è piena di figli di avvocati che suonano ‘e nacchere (da Il giorno dopo la festa)
  • Eppure ancora, mentre mi accompagnava da mamma con la vespa, dietro di lui e senza casco, mi sentivo proprio al posto giusto: infilai la fronte tra le sue scapole e me ne stetti qualche istante cosi, a sentire come veniva pioggia e muschio e odore di sottobosco. Pure se era caldo e la città si dimenava feroce attorno a noi, e lui imprecava e prendeva i controsensi – tutti quelli che c’erano –, io fui per qualche attimo altrove, in uno spazio remoto di un’altra eta. (da Il giorno dopo la festa)
  • Prima della partita al San Paolo, l’immoto silenzio a cui tutte loro erano abituate si accresceva nell’attesa, nell’incredulità. Saliva dal di fuori, oltrepassava le mura di tufo, trafiggeva il San Sebastiano dell’affresco, lì sull’arco di ingresso, così come egli era trafitto. L’Abbadessa e le consorelle sentivano l’approssimarsi della partita salire dalle scale sdrucciole di quattrocento anni addietro, verso di loro, verso il chiostro umido. La citta smetteva di affliggersi e la sospensione arrivava fin dentro le celle. Nessuno veniva a bussare al monastero né per portare offerte né per cercare preghiera. E neppure quelle vaghe marmitte di motorini sgangherati che sobbalzavano sul basalto della strada antica, neppure quei rumori remoti che dimostravano che li fuori sì: c’era la città, tutta intera, tutta.
    L’Abbadessa non vedeva oramai la città da vent’anni, avvolta dalla sua clausura. Ne aveva avuta qualche immagine dal finestrino del taxi, mentre andava in ospedale se l’ospedale non poteva venir da lei, oppure verso l’autostrada, quando erano partite per gli esercizi spirituali presso il monastero delle Clarisse di Assisi. Eppure l’Abbadessa quella città la vedeva tutta: la sentiva articolarsi attorno a lei per i vicoli profumati di candeggina, le ante dei bassi spalancate come bocche aperte sulla faccia dei palazzi terremotati. (da Gli esposti)
  • Poi se ne andò scendendo a piedi verso il mare, e la città era grande e piena e viva: viva come nessun’altra città. (da Gli esposti)
  • Era stato solo all’attracco, tra i motoscafi tirati in secco, i pini, le giostrine ferme di molo Siglio, un custode del circolo canottieri che giocava a fare il padrone, solo la Ciro aveva preso dal secchio una triglia, le aveva staccato la testa morbida mentre ancora si dibatteva, e con la mano macchiata di sangue me l’aveva offerta da mangiare. – No: che schifezza, veramente… non ce la faccio. Intanto da mare cominciavano a rientrare altri operai, e ferrovieri, e qualche impiegato delle poste: tutti quelli che calavano la barca in acqua, da aprile a settembre, per arrotondare lo stipendio. Ma anche per nostalgia. E da terra cominciavano ad arrivare i cuochi dei ristoranti, quelli che non aspettano l’apertura del mercato di Porta Nolana, perché sanno. E comprano una cosa da qua e una cosa da là. (da Rispetto per chi sa)
  • Avevamo girato tutte le trattorie: partendo dalle scale dell’Orto Botanico eravamo arrivati a Pozzuoli, e davanti c’erano passati baccalà con le patate, e alici in tortiera, e fragaglie. Era questo, il pesce che mangiavamo. (da Rispetto per chi sa)
  • Io e mamma abitavamo alla Sanità, che è un quartiere dove è molto facile sentire lo Spirito. Scendendo a comprare il pane cotto a fascina, verso la chiesa del Monacone, c’e sempre una lama di luce che supera gli antichi vicoli, attraversa il piperno e gli stucchi dei palazzi, scende per gli scaloni a forcipe e, una volta sul marciapiede, scansa i motorini e si manifesta. Così, guardando su, molto su, si vede che il cielo e azzurro e la spiritualità diviene innegabile. Essa non è dunque trascendente, non ha a che fare solo con quel cielo azzurro: se i motorini non falciassero i piedi, se non impedissero il passo ai paralitici, se il pane non fosse cotto con legni illegali, se il figlio della signora Oreste non si fosse ferito per sbaglio con la pistola sparandosi all’inguine, quella lama di luce non avrebbe nulla su cui posarsi. Le due cose vanno assieme, ed e inutile separarle. (da L’ultima vita)

Frasi da libri precedenti

  • Andai all’Asl per prenotare una visita neurologica infantile.
    – Signora purtroppo deve tornare: i computer sono guasti.
    – Mi faccia la prenotazione a penna.
    – Eh, ma non saprei da dove partire: perché l’ultima prenotazione ce l’ho nel computer.
    – Mi chiami il dirigente.
    – Il dirigente non c’è.
    – Chiamo la polizia.
    – Aspetti vedo se è tornato.
    Il dirigente era tornato e nessuno di noi due voleva trovarsi lí, né mai piú ci siamo incontrati, e neppure potrei oggi riconoscerlo come spetta agli aguzzini: perché era miserrimo, in un palazzo esagonale degli anni Settanta, coi vetri tenuti dagli scotch alle finestre. Una vecchia con le pantofole e senza dentiera aspettava; aspettava un ragazzone grasso toccandosi le pudenda con un padre che disperatamente tentava di impedirgli il gesto; aspettava un uomo a metà, poggiate le ossa del bacino su una sedia a rotelle, e sotto nulla piú.
    – Che faccio, – gli dissi, – armo questo esercito ed espugniamo l’Asl, oppure ci fa le prenotazioni?
    – Lei è cinica.
    – Sto imparando.
    (Da Tempo di imparare)
  • Io questo vedevo allora: una nonna ingenua che manco il congelatore possedeva, usando il frigorifero da campo impostole dalle figlie con i tempi di una dispensa, e che pure poteva ridere di un’ingenuita piu antica. E dietro di lei, stretta nello spazio di mezza finestra, vedevo una città infamata e infamante, derubata e ladra. Eppure da quel ventre io avrei tratto, e in quel ventre sarei scesa, lo sapevo, per diventare grande.
    Dal quarto piano di quel palazzo, che a sua volta era nato sulle spalle di un altro palazzo, e che quindi calava veramente dall’alto su una teoria ininterrotta di palazzi senza potervi distinguere strade né divisioni, né androni, né marciapiedi, né interruzioni, ma solo a inseguirsi antenne e terrazzi di copertura e balconcini mille, io volavo sulla città (da Lettera di dimissioni)
  • Sotto il balcone dove mio padre e cresciuto, lungo le sei corsie della strada nuova, mentre enormi sfere di metallo agganciate alle gru dissolvevano in polvere gli antichi quartieri, sfilava ogni mezzo di locomozione. Questa scena, di tram arancioni che scintillavano sulle rotaie e a volte si fermavano mentre l’attrezzista correva a muovere la fune in un incrocio, o di filobus, che al primo intoppo potevano accendere il motore e fare una gimcana per procedere, e poi di camion, gli articolati rossi che entravano vuoti nel porto per uscirne dopo qualche ora con i teloni tesi sul dorso, e automobili di ogni misura e modello, e motociclette e motorini, e qualche volta pure un cavallo, poi tutti i tipi di autoambulanze e macchine di carabinieri finanza e polizia, e finalmente: i pompieri fiammeggianti. Tutta questa scena, a pochi metri dagli occhi, ha sempre costituito l’attrattiva principale di quella casa. Una generazione dopo, anche mio fratello si sedeva a terra sul balcone in estate, o dietro i vetri in inverno, e restava ore fermo così a guardare il quadro che si muoveva, tracciando le traiettorie sul vetro con un ditino unto che pareva invisibile e poi si manifestava quando la stanza diventava all’improvviso calda e i vetri si appannavano.
    E così avevamo una mappa del traffico di Napoli che mandava su tutte le furie la moglie del portiere quando saliva per le pulizie pesanti. Mio padre su quel plastico ci era cresciuto, e quel plastico lo proteggeva: mi diceva sempre che non c’e stata voce della sua infanzia, nel momento notturno di precipizio verso il sonno, che sia riuscita a essere più dolce della ripresa delle auto al verde del grande semaforo di via Vespucci. Crescere su un incrocio e una fortuna: tutto viene scandito secondo ritmi precisi che continuano anche mentre dormi. E poi, di giorno, quelle file lunghe di automobili si arricciavano nella furia della citta, si scavalcavano, perdevano l’ordine, prevaricavano e si manifestavano con le voci prepotenti dei clacson. (da Lettera di dimissioni)
  • “L’unica cosa bella del Jolly hotel è che dal Jolly hotel non si vede il Jolly hotel” (da Lettera di dimissioni)
  • Dev’essere stato là a via Foria, lungo i giardini da poco rifatti e già vecchi e pure ancora non finiti, come succede a tutte le cose della città. (da Lo spazio bianco)
  • Fatto sta che una sera, erano i primi dieci giorni di ricovero, io salivo una rampa immobile di scale mobili rotte e sbucavo su piazza Cavour. E piazza Cavour aveva tutte le luci accese, una tirata lunga di librerie scolastiche sulla destra che calava giù le saracinesche, molte donne dell’est baciavano molti uomini dell’ovest nei giardinetti, e io ho guardato in fondo in fondo alla strada, che è una strada che mi è sempre piaciuta perché da una certa angolazione si vede la salita della Doganella, con due file di luci gialle che sembra la pista di decollo di un aeroporto, o una rampa che sale verso qualcosa; ma fatto sta che nel momento in cui finalmente mi sono decisa a entrare in questa salumeria costosissima e comprare una fetta di qualcosa per cena, mi sono ritrovata con una monetina che mi roteava piano piano sul collo, al posto della testa. (da Lo spazio bianco)
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