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Il terremoto del 1980 in Irpinia sepolto nei ricordi. E invece è ancora ferita viva

Terra mia: da quel giorno nulla è più lo stesso. Si ricostruì, tardi e male. E sotto quei mattoni c’è una natura che prima o poi tornerà a chiedere il conto di tanto scempio, di tanta incuria, di tanta cattiva amministrazione. Si ricordano le cifre tonde, quest’anniversario non lo è. E dobbiamo perciò ricordarlo più forte.
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È sabato, Napoli è sotto la pioggia. È ‘nfosa, malandata, se ne cadono i marciapiedi e ci sono buche enormi a terra. Sembra uscita da una pagina del "Malacqua" di Nicola Pugliese: in attesa di un evento straordinario. Ci fu. Se guardi al Pallonetto di Santa Lucia qualche palo innocente dell'epoca lo trovi ancora. Se sali ai Quartieri pure lo trovi qualcuno che ti dice "ma qui sta così dal terremoto". Entra nei palazzi dietro la Ferrovia, fatti un giro agli Orefici dietro via Marina, vai nei vicoli del corso Arnaldo Lucci, passa un poco nella zona vecchia di Poggioreale. Terrae motus-Fate Presto-terremotati-Zamberletti-De Mita-Conza-Lioni-Sant'Angelo-Pertini-ricostruzione-duecentodiciannove. Ricostruzione, ricostruzione, ricostruzione. Le case nuove, le case vecchie le case terremotate. Le case nuove, le porte nuove, le graduatorie delle case nuove.

Abbiamo ricostruito così tanto, così male, così inutilmente, che la terra è diventata spessa e impermeabile e quando si muoverà o esploderà vomiterà tutta questa coperta inutile, se la straccerà via come è già accaduto il 23 novembre del 1980. La gente ricorda le date tonde, questa non è tonda, è dispari sono trentatré come gli anni di Cristo che per fermarsi a Eboli dovette pure passare per Ariano, per Montesarchio, per Grottaminarda, dovette pure vedere, Cristo, quello che era successo e forse posò lì la croce proseguendo verso Sud. Per questo dalle mie parti si dovrebbe ricordare più forte.
Domenico Rea scrisse questo che vale la pena di ricopiare.

Una storia del Sud , di Domenico Rea

Siamo morti infarinati
come pagliacci di un circo equestre
in più soltanto un filo di sangue dalla bocca.
Avevamo tutti in mente
un nome amato e invano,
sul momento, qualcosa ce l'ha fatto dimenticare.

Mia figlia stava tessendo pensando al marito in Germania.
Mia nuora stava scrivendo a caratteri grandi
l'amore per mio figlio finito a Digione.

Avevo un nipotino sulle gambe
pieno di riccioli e bizze
una pecora ai piedi e il cane appoggiato sulla sua lana;
mentre io fumavo la pipa
nell'alta sera Irpina.

Sere di storie subite e rimaste impunite.
Sere di venti e tremiti d'animali nei pagliai,
mescolate a magie pagane e cristiane.

Ma tutti avevamo fiducia nella forza dei cieli siderei,
nell'osso che ci ha generati cui stavamo aggrappati
come grappoli d'uva acerba,
tra i sassi che ci riscaldavano insieme ai fagioli e ai ceci,
miti cibi come mangimi.

Poi c'è stato l'evento, nero furore profondo,
tra l'ictus e l'infarto, un dubbio,
come un peso di una bilancia impazzita.
Ho sentito il passo di Pertini
e quello felpato del Papa,
ma né l'uno, né l'altro, umane creature,
avevano unghie per scavarci.
E così siamo morti da emarginati
da antichi clandestini della storia.

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Giornalista professionista, capo cronaca Napoli a Fanpage.it. Insegna Etica e deontologia del giornalismo alla LUMSA. Ha una newsletter dal titolo "Saluti da Napoli". È co-autore dei libri "Il Casalese" (Edizioni Cento Autori, 2011); "Novantadue" (Castelvecchi, 2012); "Le mani nella città" e "L'Invisibile" (Round Robin, 2013-2014). Ha vinto il Premio giornalistico Giancarlo Siani nel 2007 e i premi Paolo Giuntella e Marcello Torre nel 2012.
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