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Memorie dai manicomi: in un progetto le storie degli internati. Perché non accada più

Il progetto, una collaborazione tra l’Unità di Ricerca sulle topografie sociali e l’università Suor Orsola Benincasa, vuole portare alla luce le storie sepolte in tre ex manicomi, Napoli, Aversa e Nocera. Un patrimonio di oltre 130 mila cartelle cliniche, migliaia di documenti che raccontano le vite diquanti, donne, uomini, anziani, bambini, hanno attraversato da internati questi luoghi.
A cura di Gaia Bozza
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Nina e Federico sono due tra i tantissimi internati nel manicomio Leonardo Bianchi di Napoli e nel manicomio di Aversa (Caserta). Le loro storie dimenticate sono state recuperate dall'Urit, l'Unità di ricerca sulle Topografie Sociali con l'università Suor Orsola Benincasa. Un recupero che non è solo fine a se stesso, ma inizia un percorso volto alla ricerca e alla valorizzazione della “memoria dei manicomi”, e, dopo le convenzioni stipulate con i responsabili degli archivi di Napoli e Aversa, realizza una 3 giorni itinerante di incontri e dibattiti, dal 7 al 9 aprile,  tra l’università, l’ex manicomio Leonardo Bianchi di Napoli e il liceo “Publio Virgilio Marone” di Avellino, organizzata con la “Fondazione Basaglia” e l’associazione “Le parole e le cose”, cui prendono parte alcuni tra i maggiori esperti nazionali della materia. Ieri l’incontro è stato aperto dalla proiezione dello straordinario e ormai introvabile documentario “Gli Esclusi” che Michele Gandin realizzò a partire dalle foto scattate da Luciano D’Alessandro nel manicomio di Nocera durante la direzione di Sergio Piro.

Restituire la dignità alle vite dimenticate

"Vogliamo restituire diritto di dignità e parola a tutte quelle vite violentate e offese dalle istituzioni totali manicomiali. Tra le vite che hanno attraversato i manicomi campani, quelle di alcuni personaggi famosi come l’anarchico Carlo Cafiero a Nocera o il matematico Renato Caccioppoli a Napoli. A noi però interessa innanzitutto restituire le storie dimenticate di quelle centinaia di migliaia di persone spesso internate in manicomio perché povere o “scandalose”, anomalie rigettate e rifiutate come un pericolo dalla società". È quanto afferma il coordinatore di Urit, il professore Antonello Petrillo, docente di sociologia generale al Suor Orsola. "Quello degli archivi degli ex manicomi è un patrimonio straordinario che ci consente non solo di rintracciare l’evoluzione storica, antropologica e sociale dell’assistenza psichiatrica e dei dispositivi biopolitici di governo dei viventi, ma ci fornisce anche le chiavi per decifrare logiche e prassi che, nel nostro presente, tornano a presentare quel “fascino discreto del manicomio” di cui già parlava Basaglia. In Campania, fino ad oggi, è mancata un’azione sistemica di valorizzazione capace di mettere in rete le diverse realtà che si occupano di questi temi. Da oggi proviamo a colmare questo vuoto, la 3 giorni è solo l’inizio di un ambizioso progetto che proseguirà negli anni a venire".

Le storie dimenticate in tre ex manicomi

Il progetto vuole portare alla luce le storie sepolte in tre ex manicomi, Napoli, Aversa e Nocera, oltre 430 mila metri quadri di parco ed edifici inaccessibili (un’estensione maggiore di quella di 61 campi di calcio internazionali), un patrimonio di oltre 130 mila cartelle cliniche, migliaia di documenti e libri (anche del ‘500 e ‘600) che documentano la storia della psichiatria e le vite di quanti, donne, uomini, anziani, bambini, hanno attraversato da internati questi luoghi. Tra le storie dimenticate nei manicomi, nel corso della tre giorni, saranno ricordate quella di Nina e di Federico. Nina ha 16 anni quando, nel 1967, viene internata al Leonardo Bianchi di Napoli. Il suo ricovero dura 2812 giorni, la maggior parte legata ad un letto, mentre le vengono praticati più di 40 coma insulinici, decine di attacchi febbrili indotti e 40 elettroshock, insieme alla somministrazione di dosi sempre maggiori di neurolettici. Gli psichiatri, nel tempo, la descrivono piagnucolante, querula, fatua, abulica, lurida. Nella notte di Pasqua del 1975, a 24 anni, a seguito di un litigio con un’altra ricoverata, non avendo ricevuto alcuna assistenza, muore in un letto della “sezione agitati”, dopo 4 ore di agonia. La Procura aprirà un fascicolo ma il caso non giungerà mai in tribunale: i giornali locali, nei giorni successivi al suo decesso, titoleranno "Colpita alla testa è morta una pazza". Federico, invece, giunge nel manicomio di Aversa da sopravvissuto al campo nazista di Dachau. È smarrito e senza più un luogo dove andare. Sarà ricoverato, per 40 anni, nel manicomio della Maddalena e poi, dopo la sua chiusura, in una clinica psichiatrica che riproduce prassi e logiche manicomiali. Riacquisterà la sua libertà e il suo diritto di cittadinanza solo negli ultimi anni di vita, in un gruppo di convivenza dove continuerà, fino all’ultimo giorno, a suonare le foglie, l’armonica naturale con cui già in manicomio intonava “Vola colomba”, immaginando una vita che non fosse fatta di sbarre.

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