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Accusato di violenza sessuale, dopo 7 mesi di carcere e inferno va verso l’assoluzione

Svolta processuale nella vicenda del 36enne arrestato lo scorso novembre con l’accusa di violenza contro una studentessa, avvenuta in via Marchese Campodisola. Le nuove prove emerse durante il dibattimento sollevano dubbi decisivi sull’identità del presunto aggressore. Il giovane è stato scarcerato dopo 7 mesi, la parte civile (ovvero la difesa della giovane aggredita) ha fatto dietrofront.
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Un inferno. E come altrimenti lo si definierebbe. Fermato dalla polizia, controlli, poi un riconoscimento da parte della presunta vittima di una violenza sessuale. L'arresto, un calvario immenso. Un giovane napoletano R.R. 36enne, laureato, di buona famiglia, giornalista pubblicista (e tanto è bastato a certi suoi, nostri ‘colleghi' per aprire una orrenda e morbosa ‘caccia al mostro') si trova – siamo a novembre 2014 – nel bel mezzo di quella che sembra una novella di Franz Kafka. Tra carte bollate accuse che gli sembrano assurde. Interrogatorio, formalizzazione del capo d'accusa, lacrime e disperazione dei familiari. Si aprono – per lui, totalmente incesurato e ignaro d'ogni cosa riguardante il carcere – le porte della casa circondariale di Poggioreale. L'accusato non ci sta, protesta la sua innocenza, chiede la prova del Dna. È l'avvocato napoletano Maurizio Lojacono  a prendere in mano le redini di una situazione che gli sembra troppo strana. I giornali urlano al mostro e plaudono alla giovane vittima presunta, una ragazza di 26 anni, studentessa universitaria residente al centro storico, che ha «trovato la forza di denunciare la violenza», avvenuta  in via Marchese Campodisola, strada di collegamento tra piazza Bovio e la zona della Marina. Lì la giovane dice di essere stata aggredita, costretta a entrare in un portone e palpeggiata mentre l'aggressore si masturbava.

Nel frattempo si esibiscono le prove. E sempre più cose non tornano. Sono selfie sul telefono cellulare, celle che indicano la posizione del proprietario del telefonino del presunto aggressore e ancora, Whatsapp e messaggi vari. Poi filmati di telecamere – benedette dall'accusato – di videosorveglianza, quelle della compagnia di navigazione Grimaldi. Sono gli occhi elettronici sempre accesi che raccontano una storia diversa. Una descrizione fisica che non corrisponde con quella della denuncia; lacci delle scarpe che non collimano, mani che toccano, ma con guanti (e invece i guanti non erano stati nemmeno citati in testimonianza), occhiali con stanghette diverse, diversissime da quelle descritte. Insomma una serie di incongruenze pesanti, pesantissime. Quando si arriva – è accaduto oggi – al dunque, il colpo di scena. Il giovane accusato, nel frattempo ai domiciliari, viene scarcerato del tutto. E, cosa rilevantissima, la parte civile, ovvero la difesa della vittima, rinunzia a costituirsi contro il giovane: "Vogliamo un colpevole ma il colpevole vero", dicono. Si attende la sentenza, ora, ma sicuramente si è davanti a fatti importanti, spiega la difesa, non senza le cautele del caso. E nel frattempo s'avanza una domanda: com'è stato possibile tutto ciò?

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