Al Sannazaro “L’abisso” di Davide Enia, dagli “Appunti per un naufragio” al palcoscenico
Il Mar Mediterraneo che ingoia i migranti e quello interiore di un uomo di mare. Lo scrittore, drammaturgo e attore Davide Enia, ha tratto dal suo romanzo "Appunti per un naufragio", già Premio Mondello nel 2018 e tradotto con successo all'estero, una pièce teatrale che sta portando con fortuna in giro sui palcoscenici italiani. Così "L'abisso" approda a Napoli, al teatro Sannazaro, per la linea “Contemporaneo ricerca” da venerdì 22 a domenica 24 marzo, con lo stesso Enia e per le musiche di Giulio Barocchieri. L'autore palermitano mette in scena il suo romanzo in presa diretta da Lampedusa, per raccontare quell'abisso esterno ed interno.
Il primo sbarco l’ho visto a Lampedusa assieme a mio padre. Approdarono al molo in tantissimi, ragazzi e bambine, per lo più. Io era senza parole. Era la Storia quella che ci era accaduta davanti. La Storia che si studia nei libri e che riempie le pellicole dei film e dei documentari. Ho trascorso molto tempo sull’isola per provare a costruire un dialogo con i testimoni diretti: i pescatori e il personale della Guardia Costiera, i residenti e i medici, i volontari e i sommozzatori. Rispetto al materiale che avevo precedentemente studiato, in quello che stavo reperendo di persona c’era una netta differenza: durante i nostri incontri si parlava in dialetto. Si nominavano i sentimenti e le angosce, le speranze e i traumi secondo la lingua della culla, usandone suoni e simboli. In più, ero in grado di comprendere i silenzi tra le sillabe, il vuoto improvviso che frantumava la frase consegnando il senso a una oltranza indicibile. In questa assenza di parole, in fondo, ci sono cresciuto. Nel Sud, lo sguardo e il gesto sono narrativi e, in Sicilia, «‘a megghiu parola è chìdda ca ‘un si dice», la miglior parola è quella che non si pronuncia.
La messa in scena fonde diversi registri e linguaggi teatrali, gli antichi canti dei pescatori, intonati lungo le rotte tra Sicilia e Africa, e il cunto palermitano, sulle melodie a più voci che si intrecciano senza sosta fino a diventare preghiere cariche di rabbia quando il mare ruggisce e nelle reti, assieme al pescato, si ritrovano i cadaveri di uomini, donne, “piccirìddi”.
Come raccontare il presente nel momento della crisi? Questa domanda nasconde continue insidie. In assoluto, il continuo rischio di spettacolarizzare la tragedia. Il lavoro è indirizzato, quindi, verso la ricerca di una asciuttezza continua, in cui parole, gesti, note, ritmi, cunto devono risultare essenziali, irrinunciabili, necessari alla costruzione del movimento interno. Questo ha determinato il carattere performativo del lavoro in scena, in cui si riproietta se stessi nel preciso stato emotivo che ha generato tutto, immergendosi dentro quell’esatta condizione del sentimento, in un loop che si ripete replica dopo replica, in un ritorno continuo che non ha esito se non il suo essere rivissuto, parola dopo parola, gesto dopo gesto, suono dopo suono, trauma dopo trauma, cunto dopo cunto".