All’inferno e ritorno. Coronavirus, cure e guarigione: viaggio nell’ospedale Cotugno
«Quando i pazienti tornano tra di noi? La prima cosa gli devi dire è dove sono. Perché immaginate che queste persone stavano facendo qualcosa di normale, ovviamente vogliono sapere che cosa gli è capitato». Nel reparto di terapia intensiva dell'ospedale Cotugno di Napoli il tempo non scorre normale. Tutto è frenetico, il minimo errore può costare una vita. Lo sa bene Marinella Acanfora, Caposala che qui lavora da 29 anni e che oggi lotta contro il Coronavirus. «Sono stata contattata attraverso Facebook da una persona, mi ha girato un video di un bimbo di 3 anni che ho fatto ascoltare al papà che purtroppo adesso non c'è più. E questa è una cosa che ci ha segnato tutti».
Proprio per questo quello che accade davanti ai nostri occhi è più di un miracolo. Una donna che pochi secondi prima era collegata a un respiratore è sveglia. Chiede probabilmente dove si trova, cosa è successo. L'età poco importa: di fronte al virus siamo tutti uguali. Anche perché il dottor Fiorentino Fraganza, direttore del reparto, ci spiega che a lottare per la vita non sono solo gli anziani, ma anche diversi giovani.
Nella stanza della paziente ormai sveglia, ci sono solo 3 medici. Prima di entrare hanno seguito un percorso preciso che tutti conoscono a memoria. Nessuno sbaglia o cambia strada, tutto è studiato nei minimi dettagli per salvaguardare il percorso sporco – pulito. Chi è nelle stanze singole dove i pazienti lottano tra la vita e la morte, comunica con un cartello, a gesti, con chi fuori dà supporto. Prima di uscire, nella presala, si decontaminano. Uno dei più grandi problemi di questa emergenza sono stati gli ospedali, spesso diventati loro malgrado focolai dell'infezione. Qui i percorsi erano già stati studiati. L'ospedale era culturalmente preparato. Il personale che osserva la scena, che vede una donna tornare alla vita sorride sotto la mascherina, qualcuno spiega che questo è il momento per cui lavorano. Che sembra banale, ma non lo è.
Una volta stabili i pazienti lasciano la rianimazione per andare nella sub intensiva del Cotugno. Le stanze qui sono diverse. A pressione positiva interna con otto ricambi d'aria, un intermedio con pressione negativa e un corridoio a pressione positiva. Anche i percorsi sono rispettati nei minimi dettagli. I pazienti sono svegli ma a volte non riescono a parlare. Così l'ultima parvenza di umanità, quando si è circondati da macchine, tute e mascherine è un biglietto: "Grazie a tutti".
A scriverlo è uno degli ammalati ed è la prima cosa che il dottor Giuseppe Fiorentino, della terapia sub intensiva corpo G ci mostra. «Il primo paziente che abbiamo avuto in questa unità è un vecchietto di 81 anni che si è ripreso quasi da solo praticamente, per fortuna. Abbiamo anche avuto un paziente che è stato il più giovane deceduto napoletano di 33 anni». Mentre parliamo con gli operatori le attività non si fermano. Pino Russo, Coordinatore infermieristico ci spiega il percorso da seguire per evitare di contaminare il reparto della struttura. Sorride, alle sue spalle due operatori si passano il pranzo. Entrano prima nelle stanze dei pazienti negativi e poi in quelle dei positivi. «Così siamo sicuri di non infettarli noi». Al Cotugno l'umanità è accompagnata dalla tecnologia. Mentre ci mostra le telecamere con cui le stanze sono sorvegliate 24 ore su 24, nel "centro di controllo" si sente una voce: «Avete visto un paio di occhiali?». È una delle pazienti che grazie a un tablet che funziona come videocitofono può combattere l'isolamento, parlando con il personale. È un modo per rispettare i percorsi studiati al Cotugno, ma anche per non abbandonare chi cerca di vincere la malattia.
I pazienti chiedono poche cose, come stanno, quanto tempo ci vorrà per guarire. Ma anche e soprattutto come combattere la paura. A questa domanda è difficile rispondere, anche per chi si prende cura di loro e salva vite da 40 anni come il Dottor Francesco Squillante, che confessa di non aver mai visto qualcosa di così forte e violento nella sua carriera. Questa è una realtà con cui medici e infermieri devono convivere quotidianamente. Perché il virus è ancora non del tutto conosciuto e la paura più grande è la stessa per tutti, contagiare chi si ama. Ecco perché spesso l'isolamento di chi percorre questi corridoi è diverso dagli altri. «Noi stiamo vivendo una quarantena al contrario. Mentre tutte le famiglie sono riunite noi siamo molto più separati di prima», ci spiega il Dottore Roberto Parrella, che guida l'Unità operativa complessa malattie infettive a indirizzo respiratorio del Cotugno.
Prima di uscire, dopo averci aiutato nella vestizione, Loredana e Marta che ci hanno guidato all'interno del Cotugno ci accompagnano alle doccia clorata, dove ci aspetta Maria Lucia, infermiera precaria che lavora con il sorriso. Mentre pulisce la nostra attrezzatura e mostra i passaggi fondamentali perché il virus non esca dall'ospedale, racconta che avrebbe dovuto sposarsi a maggio. Ma anche questa parte di vita dovrà attendere. Un prezzo enorme che pagano tutti. Perché ai tempi del Coronavirus amare significa sopportare la distanza e cercare, anche scrivendo il proprio nome su una tuta che ti separa dal mondo, di non dimenticare che sotto mascherine e guanti siamo ancora persone.