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Da Santa Lucia a Secondigliano col bus: un’impresa impossibile (che compio ogni giorno)

Dalla periferia al centro di Napoli in autobus Anm, andata e ritorno: quando andare a lavorare diventa un viaggio della disperazione, una “guerra tra poveri”, una miseria disgraziata e incomprensibile. Un’emergenza trasporti di cui non si capisce perché nessuno parla e scrive più, che ci rende brutti, sporchi, cattivi e razzisti.
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”È la guerra dei poveri, la guerra dei poveri". È l'esclamazione definitiva, la frase ricorrente che senti utilizzare quando il buonsenso di qualcuno cerca di sedare gli animi bollenti in certi autobus di Napoli, che ormai sono sempre più carovane della disperazione, vasche mobili di sudore, collera e altri olezzi. Prendo l'autobus da più di 15 anni e questa storia la vivo quotidianamente su quelle linee che, da cinque anni in particolare, mi conducono da casa mia a Secondigliano verso la mia seconda casa, la redazione di Via Santa Lucia. Un'andata e ritorno da brividi, perché oggi utilizzare i trasporti pubblici per spostarsi in queste tratte è pericoloso. Una volta ci si preoccupava dei malintenzionati ma questi non sono più un problema: i borseggiatori, noi pendolari, li abbiamo schedati tutti, li salutiamo con "buongiorno" e "buonasera" tanto che ormai fanno parte dell'arredamento di certi autobus dell'Anm, soprattutto il 201, il 202, il 147 (già C47) e l‘R4. No, non è un caso che scelgano i mezzi che scendono dal Vomero o che attraversano il centro delle attrazioni e quindi pieni zeppi di possibilità, tra turisti in buonafede e bamboccioni addormentati. E a noi pendolari ci tocca pure giocare a "Minority Report", una sezione pre-crimine che allerta vittima e carnefice: "Signorì, attenzione…" al primo, "Jamme, levate occasione!" al secondo. La solidarietà sulle ingiustizie, almeno di questo tipo, a Napoli non manca mai.

Nonostante certe scene da commedia dell'arte restino spassose, c'è poco da ridere quando scopri sulla tua pelle che il pericolo più grande che corre oggi un pendolare come me è quello di azzuffarsi con i suoi simili, i malcapitati compagni di viaggio. Perché per un autobus si può aspettare anche 45 minuti nell'ora di punta, e in 45 minuti puoi fare tante cose per caricarti a molla. Puoi incattivirti pensando alle bollette da pagare, sei costretto a rimandare progetti, maledire la sorte, chiamare casa: "Faccio tardi", idem per l'ufficio, puoi arrivare anche a bestemmiare. Vivere così ti altera la fisionomia. Fateci caso: noi pendolari dell'autobus siamo più accigliati di un Angry Birds. Quando arriva il mezzo, e si ha la fortuna di non ritrovarsi il passaggio di un "fuori servizio" o di un "deposito", quasi sempre è solo un mezzo che ti avvicina alla destinazione. Ti toccherà aspettare ancora per una coincidenza. E ancora. Questo è lo scenario. Replicate tutto questo per le circa 30 fermate medie di una linea, immaginatelo bene questo film e tornerete al punto di partenza di questo sfogo: "È la guerra dei poveri".

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Nessuno spazio disponibile, tutti schiacciati uno sull'altro e allora in qualche modo la rabbia va sfogata: cattiveria generalizzata verso chiunque offende il tuo esiguo spazio, i tuoi "due piedi in una scarpa". Arroganza verso chi cerca, con disperazione, di salire e non riesce: "Pigliate ‘o prossimo…". Ma quale? Scattano risse, spintoni, urla, spesso si finisce a mazzate. Si perdono le staffe e ci si accanisce tra pari. È una miseria disgraziata e incomprensibile. Lo schifo, sì lo schifo, aumenta quando a salire o ad occupare i posti a sedere sono stranieri, quelli che "non solo rubano lavoro, ma pure ‘e poste dint'e pullman". E scopri che questa emergenza trasporti, di cui non si capisce perché nessuno parla e scrive più, non solo ci rende brutti, sporchi, sudati e cattivi, ma pure razzisti. La rassegnazione è ormai totale. "Dobbiamo andare sotto Palazzo San Giacomo!!!" – il reazionario di turno non manca mai, ma poi alla fine arriva pure la sua fermata e tutto passa. Fino al giorno dopo.

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