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La lotta per la casa nel rione che era della camorra

Era il fortino del Clan Sarno, sorvegliato giorno e notte dalle vedette della camorra. Qui, il “Sindaco” di Ponticelli ha piazzato centinaia di affiliati in alloggi comunali. Ma oggi, dopo blitz, arresti e condanne, a vivere in queste minuscole case che puzzano di muffa ci sono rimaste solo povere persone.
A cura di Alessio Viscardi
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Sessanta famiglie rischiano lo sfratto nel Rione De Gasperi

Per anni ho guardato “O' Rione” da lontano, con sospetto, perché per quelli del Lotto Zero non era consigliato entrare là dentro. C'era una guerra in corso, ma poteva anche essere che ti riempissero di mazzate solo per sfizio, per passare il tempo. Un ingresso era controllato giorno e notte dalle vedette, stavano sedute sulle panchine sopra al muretto nella parte bassa del Rione, vicino al centro di Ponticelli. L'altro ingresso era a cento metri da casa mia, ma quei cento metri non li ho mai percorsi. Su quei cento metri, una settimana fa, è stato ucciso Mario. Ucciso solo perché oggi è in corso un'altra faida e se non si trovano i nemici, allora si uccide un loro parente a caso.

Quei cento metri li ho percorsi quando mi hanno chiamato alcune donne del Rione, perché nel Rione sono rimaste quasi soltanto le donne. Mi ricordo quando qualche anno fa, in piena notte, gli elicotteri sorvolarono il Rione. Con quel blitz si portarono in carcere tutti gli uomini. Uno si crede che nel fortino di un clan ci siano delle regge costruite con i soldi della droga, quelle cose che ci raccontano tutti i libri sulla camorra da Gomorra in poi, e sicuramente nel Rione ci sono anche quelle, ma la maggior parte delle case qui è piccola, sporca e umida. Il primo posto che ti portano a vedere i residenti delle case popolari, ovunque tu vada, è il cesso. Non importa se sei a Ponticelli, nel Parco Verde di Caivano, alle Salicelle di Afragola o nel Parco Saraceno di Castel Volturno. I cessi fanno sempre schifo, perché i tubi si schiattano e il Comune non li ripara mai. L'acqua filtra dal pino di sopra a quello di sotto, le pareti diventano marce e l'intonaco del doffitto se ne cade. È questo il motivo perché quando entri in queste case vieni sopraffatto sempre dal tanfo di muffa.

I cessi del Rione De Gasperi non fanno differenza, tutti rotti e fuori servizio, in quello a casa di Carmela ci si può andare solo finché c'è il sole. L'impianto elettrico è saltato e di sera si piscia alla cieca. Poi c'è la cucina, anzi l'ingresso, anzi spesso anche stanza da letto. Le case del Rione De Gasperi sono piccole, ma sono tutto quello che rimane a chi ci vive dentro. A Ciro Sarno lo chiamavano O' Sindaco perché queste case le ha fatte occupare tutte lui, anche quelle del Lotto Zero, del Lotto G, del Parco Merola, e insieme agli affiliati del clan ci fece entrare anche tanti disperati in modo da avere il consenso del popolo poter governare il quartiere intero. Così è stato per una trentina di anni.

Le case del Rione De Gasperi vanno abbattute. Lo ha deciso il Comune di Napoli con un progetto di riqualificazione urbana che prevede di tirare giù i vecchi edifici inagibili e trasferire le famiglie nei nuovi palazzi costruiti di fronte al Rione. Ponticelli è puntellata di cantieri fermi, scheletri di edifici che si alzano dalle campagne sotto cui sono sotterrate montagne di monnezza. Ponticelli è l'unico posto di Napoli dove si può ancora costruire e chi pensava che fosse veramente Ciro Sarno a comandare sul quartiere forse non ha conosciuto mai le due ricche famiglie di palazzinari edili confindustriali di Napoli est. Dove ti giri, ti giri, vedi un cantiere: l'eterno Ospedale del Mare, gli edifici destinati ai terremotati che vivono nei container del parco Galeazzo, le trappole mortali di fronte alle case di Topolino dove morì Francesco Paolillo e le ultime palazzine destinate alla gente del Rione. Insomma, la riqualificazione significa stendere un'altra bella passata di cemento sulle campagne infestate da erbacce che nessuno coltiva più da mezzo secolo.

Le famiglie del Rione devono essere trasferite, dicevamo, e per accaparrarsi un nuovo alloggio vengono chiamate di mattina a fare un sorteggio. In fila per ore, sulle scale degli uffici dell'assessorato alle Politiche Abitative a piazza Cavour, un centinaio di famiglie attendono come attendono l'estrazione del bancolotto. Solo che a questa lotteria loro vincono una casa popolare, oppure un “ritenta sarai più fortunato”. Ma da questa lotteria sono state escluse sessanta famiglie, che non dormono la notte col terrore che arrivi la polizia in tenuta antisommossa per buttare tutti fuori di casa.

Il Rione si presenta oggi mezzo vuoto, interi palazzi sono stati murati per evitare che un altro esercito di disperati si butti dentro le case lasciate vuote da chi viene trasferito negli edifici nuovi. Sembra un paese fantasma, dove si aggirano solo gli ultimi rimasti – e sono sempre di meno. Metà di loro ha occupato la casa dopo il 1998 e non rientra nella sanatoria del Comune che permetteva di essere considerati legittimi assegnatari degli immobili. L'altra metà, è composta da parenti di persone arrestate per associazione camorristica. “Abbiamo trovato 70 certificati di associazione” mi racconta l'assessore Fucito, in pratica in ogni nucleo familiare rimasto ci sono 1,25 affiliati ad un clan.

Nella casa di Carmela, dove mi trovato, c'erano tutte donne. “Mio marito sta dentro per associazione, ma io mi voglio separare, sto facendo le carte del divorzio” ci dice una, mentre un'altra sostiene: “Questi si pensano che quando mio marito esce, si mette a fare un'altra volta l'associato? Non hanno capito che quando esce tiene l'età giusto per andare in pensione”. Poi vado al piano di sopra, c'è una donna che la vita ha invecchiato con crudeltà, piegata e con un foulard che le copre tutto il viso come fosse un hijab, ma che invece è solo un modo per nascondere un molare non curato diventato gonfio. La signora è agli arresti domiciliari e sta scontando quattro anni di una delle tre condanne che ha ricevuto perché la presero a spacciare droga.

“Io non tenevo soldi, per questo mi sono buttata nella droga” mi dice la signora, aggiungendo poi che non era neanche “droga pesante” ma soltanto un poco di hashish. “Io vendevo l'erba e mi facevo un paio di euro di guadagno sopra ogni dose”. C'è chi vende la droga perché vuole fare i soldi e c'è chi lo fa per la miseria. Chi lo fa per fare i soldi non vende l'erba, ma la rifornisce, e poi vende crac, kobret, cocaina ed eroina. Nel Rione non se ne produce più di questa roba, ma la si vende in grande quantità. I “laboratori” sono nel Lotto Zero, sono le cucine di normali case, dove pensionate e mamme tagliano il prodotto che viene da Secondigliano con qualsiasi cosa si trovano sotto mano, soprattutto tintura per capelli (per l'ammoniaca) e aspirine. La mattina si taglia e la sera la si porta lì per venderla.

“Siamo terrorizzate” mi dicono le donne “i nostri figli non dormono la notte perché hanno paura che vengono le guardie con i caschi blu e ci buttano fuori”. Il terrore di perdere tutto, anche quel poco che resta: “Ho subito una rapina con il coltello” mi dice l'ex-spacciatrice “Era un tossico, mi ero messa in un angolo, voleva i miei soldi e mi minacciava con la molletta”. Comunque, sono persone che la morte l'hanno accettata come rischio da tempo. La verità non è mai facile da vedere, non c'è mai un confine definito tra giusto e sbagliato, soprattutto lontano dai territori sicuri dove "buono" e "cattivo" sono parole che hanno sempre lo stesso significato. Qui, nel Rione De Gasperi, buono e cattivo cambiano senso a seconda della prospettiva. E, dall'interno, anche quello che fuori sembra sbagliato assume un nuovo contorno che sfuma nel buio di strade senza illuminazione dove la sera gli innocenti vengono uccisi a colpi di pistola.

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