
Stamattina, una decina d'anni dopo aver deciso che, nella mia vita, avrei cercato di fare il giornalista, ho voluto per la prima volta compiere una sorta di pellegrinaggio personale e rendere omaggio alla persona che, inconsapevolmente (in primo luogo per me stesso, ma soprattutto, per ovvie ragioni, per lui) mi ha indotto a compiere questa scelta. Ero in piazza Leonardo, sospesa tra il Vomero e l'Arenella, su una delle colline di Napoli, e mi sono ricordato che, a pochi passi da lì, c'è via Vincenzo Romaniello: ai più il nome di questa strada non susciterà nessuna reazione, ma per me – e per fortuna per molti altri – questo nome significa tanto: è la strada in cui abitava e in cui trovò la morte Giancarlo Siani, il giornalista del Mattino barbaramente ucciso dalla camorra il 23 settembre del 1985, a soli 26 anni.
Se non fosse per il murales dedicatogli proprio in occasione dell'anniversario della sua morte, nel 2016, sul muro di fronte al palazzo, nessuno saprebbe che lì, più di 30 anni fa, si è consumato uno degli omicidi di camorra più noti e vili della storia della nostra città e del nostro Paese. E comunque, appena termina la discesa che da piazza Leonardo porta a via Romaniello, il murales non è proprio la prima cosa che balza all'occhio: bisogna voltarsi e, dopo che lo sguardo è stato attirato, in basso, da quella sottospecie di obelisco che campeggia all'esterno della stazione di Salvator Rosa della Linea 1 della metro, gli occhi si posano sui colori – il verde è predominante – del murales e sul volto sorridente di Giancarlo.
Dopo aver ammirato il murales per un po' e dopo aver cercato di contenere l'emozione, mi sono guardato intorno, alla ricerca di qualche altro segno della presenza di Giancarlo in quel luogo e, soprattutto, di qualcosa che ricordasse la sua sommaria esecuzione, ma non riuscivo a trovare nulla: è a quel punto che, sul muro all'angolo del palazzo, dove via Romaniello si stringe e diventa un vicoletto che culmina nelle scale che scendono fino a Salvator Rosa, che ho notato la targa, coperta dalle foglie di una pianta, per niente ornamentale e anche abbastanza brutta: bisogna avvicinarsi per leggere il nome di Giancarlo, la data dell'assassinio e il pensiero a lui dedicato. E niente, la cosa mi ha fatto rabbia: ho avuto l'impressione che Napoli, per l'ennesima volta, abbia dimenticato, quasi abbandonato, uno dei suoi figli, di quelli che hanno dato la vita nel tentativo di rendere la città un posto migliore.
