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Opinioni

Li chiamavano delitti d’onore, oggi si chiamano “femminicidi”. Ma la barbarie è la stessa

Una volta lo chiamavano delitto d’onore e il codice penale del nostro Paese prevedeva pene più lievi per chi avesse ucciso una moglie, sorella, madre che avesse “arrecato offesa”. Oggi chi brucia viva la propria compagna incinta, come accaduto a Pozzuoli (Napoli), commette un tentato “femminicidio”. Cambiano le parole, ma l’odio di genere, quello, resta uguale.
A cura di Angela Marino
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C'è una sorta di pudore e il timore di scivolare nella retorica del politicamente corretto a tutti i costi quando si tratta di usare la parola femminicidio. Viene maneggiata con cura, in piccole dosi, amministrata con sapienza per non abusarne e per non urtare la suscettibilità di quanti credono che un omicidio, sia un atto di violenza contro l'umanità tutta, a prescindere dal genere. Eppure, è proprio il genere la discriminante di un certo tipo di delitti: come chiamare quello che ha visto bruciata viva con in grembo la figlioletta di 8 mesi, Carla Caiazzo, 38enne di Pozzuoli? Come definirlo se non (tentato) femminicidio? Voleva ucciderla –  l'ex compagno – e uccidere la loro bimba, come testimoniano alcune lettere in cui manifesta il desiderio di strangolare la ex, o solo sfigurarla, offuscando la sua bellezza per sempre? La rabbia, il desiderio di annientamento, la volontà punitiva nei confronti di una donna che aveva osato affrancarsi da lui e vivere, sebbene incinta, una sua vita, che cosa sono se non sentimenti e pulsioni "di genere"?

Una volta lo chiamavano delitto d'onore. Era definito così l'omicidio di una donna, che fosse moglie, sorella, madre o figlia, che avesse macchiato la "rispettabilità" di un cognome con una relazione, o semplicemente abbandonando il marito, affrancandosi, proprio come aveva fatto Carla. Bruciarla, accoltellarla, o spararle era considerato accettabile, tanto è vero che fino al 1981, nel nostro ordinamento, per un uomo che uccideva la moglie, la quale gli aveva arrecato "offesa", le pene erano minori rispetto a un delitto con movente diverso. E l'articolo 587 del Codice penale, abrogato con una legge del 5 agosto 1981, prevedeva una pena ridotta per chi uccidesse la moglie, la figlia o la sorella al fine di difendere "l'onor suo o della famiglia". Uccidere la donna che si ribella alla violenza, al sopruso, che rivendicava la propria libertà era considerato delitto "riparatore". Proprio la connotazione "di genere" lo derubricava a reato minore. La stessa che oggi che ne fa un crimine efferato. Il vero successo della società sarebbe proprio questo: convertire il "genere" da attenuante a aggravante, dando un significato preciso, culturalmente, alla violenza o alla persecuzione perpetrata in virtù di un genere. Il retaggio di secoli di misfatti "necessari", sembrano avere, però, specie nel sanguigno Sud, ancora la meglio.

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Giornalista dal 2012, scrittrice. Per Fanpage.it mi occupo di cronaca nera nazionale. Ho lavorato al Corriere del Mezzogiorno e in alcuni quotidiani online occupandomi sempre di cronaca. Nel 2014, per Round Robin editore ho scritto il libro reportage sulle ecomafie, ‘C’era una volta il re Fiamma’.
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