Migranti e traffico di essere umani: ecco le suore che aiutano le vittime della tratta
Che fine fanno i migliaia di migranti di sopravvissuti agli sbarchi? Quanto si indebitano per salvarsi (forse) la vita rifugiandosi sulle nostre coste? E dopo, quando sono in salvo, come possono riscattare le loro vite dal giogo di chi del loro dramma ha fatto un business? Se l'è chiesto Elisabetta Povoledo, cronista del New York Times che ha trovato una risposta proprio in Italia, dove finisce la lotta disperata per sopravvivere alla guerra e comincia quella per sopravvivere alla schiavitù. Qui, nella periferia del Casertano, è dove centinaia di migranti battono la strada per riscattarsi dai loro padroni trafficanti, una delle tante cittadine africane che hanno dovuto vendere il proprio corpo, racconta la sua storia alla giornalista. A dire il vero, la donna intervistata, è sì una una delle tante vittime di tratta a scopo di sfruttamento, ma anche una delle poche. Che ce l'hanno fatta. Allettata dalla promessa di una vita migliore, comincia a raccontare la cronista nell'articolo apparso il 2 maggio sul prestigioso quotidiano americano, e soprattutto di un lavoro regolare, la giovane si era imbarcata grazie all'intervento di un "intermediario" che le aveva chiesto la somma di 50mila euro per traghettarla nella sicura Italia. Senza mezzi, senza un soldo, mossa solo dalla disperazione la ragazza aveva accettato salvo poi rimanere incatenata al suo aguzzino della quale, ormai era diventata una proprietà, un capitale umano da investire, per riavere indietro la cifra pattuita, ma anche molto, molto di più.
A Palermo, la giovane nigeriana comincia a prostituirsi. Passano tre anni di sofferenze, maltrattamenti, umiliazioni e la donna – il cui nome non viene rivelato, per motivi di privacy, nell'articolo – trova il coraggio di ribellarsi. Chi sa come e chi sa per quale miracolo, la giovane viene a conoscenza dell'esistenza del rifugio chiamato "Casa Rut", a Caserta, che accoglie giovani donne e madri con un passato di prigionia e degrado. Al centro, la ragazza trova finalmente una casa, che condivide con altre donne nella sua stessa condizione riuscendo così a sottrarsi al ricatto dei suoi aguzzini. Qui le giovani africane non solo trovano rifugio ma iniziano a muovere i primi passi verso il futuro attraverso i laboratori sartoriali del progetto New Hope. "La cooperativa è importante perché mostra loro che possono produrre, che possono fare i soldi, non con i loro corpi, ma attraverso la loro creatività". "È liberatorio" dice suor Rita Giaretta, una delle religiose del rifugio dove circa 370 donne – per lo più dalla Nigeria – hanno trovato rifugio negli ultimi 20 anni. "Una volta che hanno i documenti – aggiunge la religiosa – noi diciamo loro di camminare a testa alta".
In collaborazione con gli assistenti sociali, le istituzioni locali e le ambasciate, le suore, infatti, aiutano le donne a ottenere nuovi documenti, necessari per un nuovo inizio. Non è facile strappare queste donne all'oppressione dei trafficanti-padroni, racconta la cronista americana, perché spesso le giovani temono per la sorte dei loro familiari rimasti in Africa. Un ricatto che frutta ai gestori di questo traffico decine di migliaia di euro e che costituisce un vero e proprio business in cui le stesse vittime sono state incorporate. Gran parte dei "protettori", infatti sono ex prostitute che continuano a rimanere nello stesso giro occupandosi di gestire le nuove arrivate. Un meccanismo massiccio che ruota intorno a un business di migliaia di euro difficile da spezzare, ma al quale, dimostrano queste piccole comunità un'alternativa c'è. "Alle ragazze – concluse suor Rita – noi diciamo che i trafficanti devono aver paura di loro, non il contrario."