Parthenope, l’antico porto sommerso torna alla luce. E sotto il mare spunta una strada
È sotto il filo dell’acqua, ad una profondità di circa quattro metri. Si tratta di un cantiere archeologico sui fondali antistanti il Lungomare che sta restituendo pezzi straordinari di storia della città, quella del suo antico porto, ormai sommerso da millenni. Ad ottobre l’ultima scoperta da parte di un gruppo di studiosi napoletani coordinati dall’università Iulm di Milano. E dai depositi di sabbia e detriti riaffiora anche un impianto stradale che, a guardare foto e video di chi ha setacciato l’area sott’acqua centimetro per centimetro, presenta tracce verosimili delle impronte di carri. Le indagini sono ancora ad uno stadio iniziale, ma i ricercatori abbozzano una prima ipotesi.
"Le immersioni, a parte quattro gallerie sul lato di ponente di Castel dell’Ovo – spiega l’archeologo subacqueo Filippo Avilia -, hanno rilevato tagli e lavorazioni di origine antropica, cioè opera dell’uomo, nel banco tufaceo sotto la scogliera, più o meno all’altezza dell’università Parthenope. Tutto è in corso d’opera, dai rilievi topografici all’analisi planimetrica, però tali manufatti, per esclusione o per analogie, potrebbero essere legati ad infrastrutture portuali, forse della prima colonia di Palepolis. Inoltre, abbiamo individuato quella che sembra una strada arcaica, larga circa due metri e lunga una trentina, con i solchi lasciati dai carri dell’antichità".
Ma di quale antichità si tratta? "Le gallerie, più che cave, appaiono come postazioni militari – continua Avilia, impegnato nel ‘Sea.Re.N. Project' sotto la guida di Louis Godart (consigliere culturale per il Ministero degli Esteri, accademico dei Lincei e già professore di Filologia Micenea presso la Federico II di Napoli) -, una sorta di corridoi “bunker” posti a controllo di un tratto di mare, e presentano similitudini di taglio e dimensioni con quelle dell’Antro della Sibilla a Cuma risalenti al IV secolo a.C. Quindi genericamente databili alla prima fase della colonia". Conferme di datazione che si cercano instancabilmente attraverso non solo le immersioni, ma anche la rilettura delle fonti storiche, iconografiche e il vaglio delle foto aeree. Una ricerca documentale che ha interessato finanche i quadri d’epoca per l’evoluzione e la descrizione dei luoghi e ha coinvolto in interviste i pescatori conoscitori delle zone interessate. In mezzo c’è il complesso intreccio di documentazioni e teorie archeologiche, approfondimenti filologici ed esame dei miti di fondazione.
Avilia fa una premessa: "Nel 2014, durante alcuni sondaggi nel porticciolo di Santa Lucia, trovai il banco di tufo quasi affiorante, cosa che mi fece già sospettare che Castel dell’Ovo fosse in origine una penisola. Il ritrovamento successivo delle gallerie lo ha confermato". Dunque, un braccio di terra continuo, non un isolotto, che, raccontando vecchi orizzonti perduti, aprirebbe nuovi scenari scientifici. "Gli studi storici, fino alle navi scoperte nel corso della realizzazione della metropolitana – precisa meglio Avilia -, hanno sempre affermato che il porto fosse ubicato soltanto nel lato di levante (rispetto a Pizzofalcone), in pratica nei pressi del Maschio Angioino, con la possibilità di approdo fluviale alla foce del Sebeto, che sfociava nell’attuale piazza Municipio. Tuttavia Pizzofalcone, di cui si data la fondazione intorno al VII secolo a.C., poteva benissimo avere un doppio approdo, perché il lato di ponente, considerato poco adatto, era in origine un’insenatura molto protetta, oggi sì lo vediamo in posizione parecchio avanzata, mentre in età antica, come attestato dagli studi geologici, la spiaggia era molto più arretrata, arrivava quasi fino a piazza dei Martiri. Quindi ci troveremmo di fronte ad una baia, che andava da Mergellina in prossimità del molo di attracco degli aliscafi, rientrava a piazza dei Martiri, curvava sotto Pizzofalcone, proseguendo alla fine con il “braccio” di Castel dell’Ovo, la penisola di Megarys. Forse è proprio la baia del primo insediamento greco sulla collina di Pizzofalcone, prima di Neapolis".
Le ultime scoperte sarebbero, dunque, legate a questo approdo. Congetture che vanno di pari passo con le meticolose prospezioni geo-archeologiche che continuano in questi giorni, nonostante la breve pausa del mare agitato di novembre. Nulla ferma i componenti dell’affiatato team di ricerca, del quale fanno parte fin dall’inizio dell’avventura in acque partenopee, oltre ad Avilia, docente a contratto della Iulm, il geologo Rosario Santanastasio, responsabile nazionale dell’associazione Marenostrum di Archeoclub d’Italia, il suo responsabile tecnico subacqueo Vasco Fronzoni e l’ingegnere Vincenzo Landi, direttore tecnico di Elleesseitalia srl. La nuova campagna archeologica, messa in piedi grazie all’appoggio del rettore della Iulm Mario Negri e alla collaborazione della direttrice del Dipartimento Studi Umanistici Giovanna Rocca e della ricercatrice Erika Notti, ha consentito di ampliare la conoscenza delle strutture già individuate nel 2016, mettendo in evidenza quanto la storia del mare ci dice dei popoli che lo hanno frequentato, della loro identità culturale basata sulla fitta rete delle comunicazioni, nata con il movimento delle merci e, insieme, del pensiero.
Di qui la finalità di tutela e valorizzazione del patrimonio subacqueo che è punto cardine del progetto biennale della Iulm, finanziato con diecimila euro per questo primo anno. "Istituire campi scuola in accordo con il Comune di Napoli – elenca Avilia -, creare percorsi turistici subacquei, una app e un sito web. Ma soprattutto mappare, per la prima volta, questo tratto di costa da capo Posillipo a Castel dell’Ovo". Un unicum sotto il naso di chi, inconsapevole, passeggia sul lungomare più suggestivo del mondo. Sotto il filo dell’acqua che custodisce, sigillate come in una Pompei sottomarina, come in una capsula muta del tempo, le vestigia di un’epoca che, ora, spolverate da un guanto da sub, fanno sentire la loro voce. Quasi ad imitare il seducente canto dell’antica sirena Parthenope.