Poggioreale, i detenuti rinunciano all’ora d’aria per paura dei baby boss
Il timore di trovarsi di fronte al nemico in uno spazio troppo ristretto per potersi difendere, la paura di ritorsioni, rappresaglie, vendette. Tutto in un contesto criminale che fuori è sempre più frammentato, fatto di bande e “paranze”, e dentro inevitabilmente implode. Succede nel carcere di Poggioreale e succede che i detenuti rifiutino le “celle aperte”, cioè senza mandate per otto ore al giorno, con la libertà di muoversi nelle sezioni e negli eventuali spazi comuni. Una rivoluzione irreversibile, tornare indietro non è soltanto contra legem ma soprattutto contro i diritti del detenuto. Perché di legge si tratta, non di concessione: lo stesso ordinamento penitenziario all’articolo 6 definisce le celle camere destinate al solo pernottamento. È il cosiddetto “regime aperto”, in piena esecuzione in Italia tra ritardi e carenze strutturali, e che ci adegua ai dettami europei di dignità umana.
Eppure a Poggioreale si rinuncia alle celle aperte. Su 2050 reclusi e con il 60% di attuazione finora per gli aventi diritto (sono esclusi i quasi 200 detenuti dell’Alta sicurezza), i casi di rifiuto sono arrivati ad un centinaio, una ventina solo negli ultimi giorni. Cifre alte se si considera la portata di un cambiamento dove la nuova prassi detentiva responsabilizza alla libertà. E probabilmente destinate a salire se si tengono presenti i motivi. Perché tale resistenza? «La giustificazione più frequente è quella dell’incompatibilità, quasi nessuno esplicita la diffidenza nei confronti dei compagni – spiega il direttore di Poggioreale Antonio Fullone -. Ma di base ci sono motivazioni più serie, c’è un non detto legato a timori di incolumità, legato cioè ad un’appartenenza non formalizzata a clan diversi, contrapposti, che in un contesto di apertura delle celle può diventare forte elemento di rischio».
Le celle aperte vissute come una minaccia alla propria incolumità. Il carcere, dunque, come immagine riflessa ed ingrandita della società esterna, come luogo dove l’innovazione mina gli equilibri già labili. Il carcere, quello che per gli affiliati alle consorterie malavitose è soggiorno obbligato da inserire nel curriculum vitae, come specchio che amplifica dinamiche, spaccature e faide del “sistema” camorristico, il quale assiste alla progressiva polverizzazione dei clan storici. Tra gangsterismo urbano e gruppi criminali giovanili. «Anche i detenuti classificati comuni, cioè non affiliati alla camorra – aggiunge Fullone -, in genere un apparentamento, seppure non formale, ce l’hanno e, quindi, in un contesto carcerario di regime aperto, dove c’è una maggiore mescolanza e le occasioni di contatto si possono moltiplicare, avvertono un problema di sicurezza personale». Da qui la rinuncia con la scusa dell’incompatibilità, della confusione. «Del voler stare tranquilli – sottolinea il direttore -, perché la cella aperta disturba, non vogliono essere coinvolti, soprattutto gli anziani, che non si riconoscono nella mentalità dei ragazzi di oggi, cercano maggiore riservatezza. Ai detenuti, ovviamente, non conviene dire ‘appartengo a questo clan o a quest’altro’, ammetterlo è controproducente, perché così rischiano di essere trasferiti all’Alta sicurezza. Noi lo capiamo in base anche alla provenienza di quartiere, già questa è una sorta di classificazione ufficiosa, particolarmente in considerazione di situazioni territoriali delicate. È pur vero, va detto per onestà e chiarezza, che in carcere questo tipo di legame viene alleggerito, svuotato, perché prevale il vincolo detentivo rispetto a quello associativo. Teniamo presente, inoltre, che i litigi nascono comunque per la semplice convivenza in cella, a partire dal canale televisivo su cui sintonizzarsi».
E allora, nel cosiddetto reparto circondariale (cioè i padiglioni Milano, Salerno e Napoli), ovvero il mare magnum della detenzione, che conta tra le 700-800 persone, si tende, al di là della posizione giuridica, di aggregare i detenuti per provenienza geografica, di rione, di quartiere, di sistemarli in base alle indicazioni date da loro stessi, sulla presenza, ad esempio, in istituto di parenti o amici. «C’è una sistemazione di fatto che rispetta questo tipo di principio – ribadisce Fullone -, però ovviamente non è rigorosissima, non sempre è possibile». E soprattutto il problema di fondo resta un altro, dal momento che Poggioreale, vecchia prigione di inizio Novecento, «non ha nemmeno le tradizionali stanze della socialità, il che contribuisce a rendere questo regime difficilmente applicabile. Nel padiglione Livorno abbiamo creato mini-sezioni come luoghi di relazione. Stiamo cercando, inoltre, di realizzare spazi di lettura, per mangiare insieme, per trascorrere in maniera meno passiva il tempo delle celle aperte. Nove ore, tutti i giorni, in alcuni padiglioni anche di più. Aprire le stanze è un momento di importante trasformazione, ma non può ridursi al passeggio nei corridoi». Perché se le condizioni spiegano le cose, sono poi le relazioni che le cambiano.
«Non è sufficiente garantire le celle aperte, non era questo lo spirito iniziale del cambiamento – chiarisce Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale -, ma è necessario riempire il tempo dell’ozio con iniziative utili al percorso di formazione dei detenuti. Di certo nel caso di Poggioreale non si può forzare mettendo a rischio la vita di chi è in cella, ma a piccoli passi bisogna intervenire, l’amministrazione penitenziaria, a cui attiene il movimento della popolazione carceraria, potrebbe mettere in condizioni di sicurezza i detenuti che appartengono a clan contrapposti, ad esempio con una mobilità precisa in altri istituti vicini. Le carenze strutturali? Non è questione di mancanza di fondi, ma di cattivi investimenti. Dappertutto si possono risolvere i deficit con buoni architetti, volontà e idee ispirate ad un modello di pena rieducativa e soprattutto cominciando il restyling delle carceri già esistenti, invece di pensare a costruirne di nuove». A Poggioreale il regime celle aperte è arrivato negli ultimi due anni, all’indomani della sentenza Torreggiani. Ha interessato prima il padiglione Firenze alla fine del 2014, poi il Livorno, il Roma terzo piano e piano terra, successivamente il Salerno e il padiglione Italia. «C’è da aprire ancora il Salerno, il Milano e il Napoli primo e secondo piano, mentre il terzo è riservato a detenuti non compatibili con il regime aperto perché classificati pericolosi. Lavoriamo, nonostante le difficoltà – si augura Fullone – per l’apertura di tutti i reparti che ne hanno diritto entro la primavera».