Uccisero coetaneo a Ponticelli, l’accusa: “No a ergastolo, devono avere altra opportunità”
Non l'ergastolo, ma 30 anni di carcere. Così, quando avranno finito di scontare la pena, avranno una seconda possibilità per rifarsi una vita: sono troppo giovani per un fine pena mai, per rimanere in galera fino alla fine dei loro giorni. È la richiesta che ieri, 21 maggio, ha avanzato il pm Henry John Woodcock nel corso del processo con rito abbreviato che vede alla sbarra Anthony Spina, 19 anni, e il fratello Nicola, 24 anni, imputati per l'omicidio Emanuele Errico nel Rione Conocal di Ponticelli. Nel corso della requisitoria, davanti al gup Rosaria Maria Aufieri, il pubblico ministero ha invocato le attenuanti generiche e ha chiesto 30 anni invece che l'ergastolo.
Gli inquirenti hanno accertato che all'omicidio hanno preso parte entrambi, ma a premere il grilletto per esplodere quel colpo alla schiena che uccise Emanuele Errico, detto "Pisellino", era stato Anthony Spina, il più piccolo dei due imputati. Ai due viene contestata la premeditazione, l'aggravante dei motivi abietti e l'utilizzo di armi; nelle prossime settimane sarà il turno degli avvocati della difesa, Roberto Saccomanno e Sergio Simpatico. Mentre era in corso il processo, all'esterno del Tribunale i carabinieri hanno arrestato e sottoposto ai domiciliari il padre dei due imputati: era destinatario di un provvedimento cautelare per furto.
L'omicidio risale al 26 aprile 2018, sarebbe stata una ritorsione in seguito all'incendio di uno scooter di proprietà dei due fratelli imputati. L'agguato era avvenuto in via Chiaro di Luna, in una zona coperta dalle telecamere di sorveglianza di un supermercato; subito dopo Antony e Nicola Spina erano scappati a Scalea, portandosi dietro tutto il contante che avevano trovato in casa, con l'intenzione di spostarsi all'estero. Con la vittima si conoscevano, c'era stato anche un precedente litigio relativo alla spartizione del bottino di una rapina. Avevano capito che era stato lui a bruciare il loro motorino esaminando le telecamere di videosorveglianza di quello stesso supermercato. Gli investigatori avevano scoperto il nascondiglio in Calabria ascoltando le intercettazioni dei familiari, che parlavano al telefono della latitanza.