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Covid 19

Coronavirus, a Napoli i vecchi e i nuovi poveri sono tutti nelle mani dei volontari

Il Coronavirus è l’emergenza odierna. Sono anni che invece a Napoli c’è quella della povertà e della mancanza di lavoro. Oggi la chiusura di decine di attività e lo stop anche al lavoro sommerso e a quello illegale fa ribollire un calderone sociale che sta per aggiungersi al dramma sanitario in atto.
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Un lungo elenco di numeri di cellulare, pubblicato sul sito istituzionale, una disponibilità che si trasforma in un assedio: le politiche di assistenza del Comune di Napoli, impreparate all'ordinario, si sono dimostrate ovviamente inadatte all'emergenza sociale connessa al Coronavirus. E così sono diventati i volontari l'asse principale di riferimento per le spese solidali, per l'aiuto agli anziani, per tutto quello che dovrebbe essere pagato dai soldi delle nostre tasse e che invece viene chiesto a gente di buona volontà.

Molti volontari, tra l'entusiasmo e il dispiacere per non poter esaudire ogni risposta, si vedono impotenti e inviano anche ai giornali come Fanpage.it i messaggi-tipo degli utenti. Si tratta di donne e uomini soli, in molti casi anziani, ultrasettantenni o più, malati o in quel limbo tra la non autosufficienza e la difficoltà economica. Spesa a domicilio o spesa sospesa. C'è chi ha il problema di muoversi e chi quello di pagare. Già: è la povertà l'altro enorme problema che emerge: il rischio invisibile del virus e quello percepibile della miseria,  della fame che spicca oggi che le bocce sono ferme e che ognuno di noi riesce più facilmente a girarsi dall'altra parte e capire le condizioni di chi ci sta a fianco e che finora magari non avevamo mai notato.

Vivere senza lavoro

«Ho sentito che Conte ha approvato il buono spesa, mi fa sapere?». «È vero che ci sono i sussidi per chi non lavora?»; «Mio figlio lavora a nero, prende il reddito di cittadinanza, avrà diritto anche al reddito di quarantena? Non sta lavorando più nessuno a casa». Il lavoro nero, la grande piaga che toglie stabilità, diritti, tasse allo Stato e al tempo stesso garantisce la sussistenza a chi è al mondo e ha pari diritti degli altri di vivere: ragazzi delle consegne di bar e ristoranti, scaricatori dei traslochi, pizzaioli, baristi e aspiranti tali, cuochi di trattorie, camerieri dei ristoranti per ricevimento, parcheggiatori nei piazzali di ristoranti e locali, addetti alle pulizie di scale e palazzi, badanti, donne e uomini di servizio, sarti in casa, venditori ambulanti con bancarelle o porta a porta, venditori di pane a domicilio, negozietti di detersivi nei ‘bassi'. Mestieri umili e spesso illegali che chi vive dalle nostre parti ha imparato a conoscere bene. Anche di questo si campa, anche con questo si campa.

L'Istat stima in quasi 1 su 4 le famiglie povere in Campania. Parliamo di povertà relativa ovvero «l’impossibilità di fruire di beni o servizi in rapporto al reddito pro capite medio in Italia». Si vivacchia alla giornata, ma come? Cercando di arrangiarsi, parola che ormai suona come un insulto. Perché l'arrangio significa spesso scollinare il confine tra legale e illegale: parcheggiatori abusivi, trasporti illegali di beni o persone. E nella peggiore delle ipotesi spaccio al dettaglio, base logistica per hashish da conservare per conto delle piazze di spaccio, piccole truffe (finanziamenti fasulli, prestanome di ditte fantasma, acquisto di beni con finanziamenti e documenti contraffatti). La platea è amplissima e demolisce ogni narrazione quieta e rassicurante del «grande cuore di Napoli», della «città che ce la fa» e del «andrà tutto bene», distorsione borghese e paternalista di chi non sa o non vuole sapere cosa è  Napoli e la sua estesissima, popolosissima e povera provincia. È così non solo «ai tempi del Coronavirus». È così da sempre. Bisognava accorgersene prima. Prima della pandemia di virus c'è stato il contagio della povertà: uno dopo l'altro: disoccupati di lunga durata, giovani senza lavoro, mobilità, esodati, cassintegrati. Una popolazione di disperati cui oggi fa paura il Coronavirus esattamente come la fame.

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