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Dialetti d'Italia

Dagli “sciuscià” alle “pinozze”: quando l’americano entrò nel dialetto napoletano

Nel 1943 gli Alleati entrano a Napoli. Di quegli anni difficili, oltre alle foto in bianco e nero e ai romanzi, restano le parole che il dialetto napoletano ha imparato dai soldati americani: storpiandole e adattandole ad una quotidianità fatta di miseria e guerra. Dai famosi “sciuscià” alle gustose “pinozze”, ecco le parole più curiose giunte dall’America attraverso il dialetto napoletano.
A cura di Federica D'Alfonso
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Gli "sciuscià" napoletani al lavoro.
Gli "sciuscià" napoletani al lavoro.
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L’inglese e il dialetto napoletano condividono una lunga storia fatta di scambi e contaminazioni che inizia nel Seicento. La lingua di Napoli, così come numerosi altri dialetti nel resto d’Italia, ha assorbito moltissime suggestioni provenienti dalla terra al di là della Manica, e non solo da essa. Una peculiarità molto interessante del dialetto napoletano è quella di aver potuto assorbire, e far proprie, tantissime parole provenienti anche da oltre Oceano: fu infatti con gli americani che in napoletani impararono a mescolare i linguaggi, “creando” delle parole che sono anche la testimonianza del contatto, doloroso e complesso, avvenuto durante la Seconda Guerra mondiale.

Gli Alleati a Napoli: nella lingua e nel cibo

È una storia che inizia il 1 ottobre del 1943, quando i primi carri armati Alleati entrano in una Napoli già libera grazie alla resistenza delle Quattro Giornate, assumendo il controllo militare del porto. Anni duri e difficili per la popolazione, in cui la fame, la miseria e la malattia serpeggiavano per i vicoli distrutti dai bombardamenti. Il romanzo “La Pelle” di Curzio Malaparte è ancora oggi uno dei documenti più affascinanti e sofferti di quegli anni. La vecchia Europa conobbe l’America per la prima volta proprio a Napoli: il dialetto napoletano ne è testimone.

Non è un caso che in tempi di razionamenti alimentari e scarsità di beni di prima necessità, nella memoria linguistica di Napoli siano entrati termini curiosi come “gengomma” o “pinozze”: i soldati alleati avevano le tasche piene di queste leccornie stravaganti, come le “chewing-gum” e le “peanuts”, e nei racconti storici più famosi è frequente incontrare un bambino che chiede a gran voce la prelibatezza made in USA.

"Sechenenza" e "batto": parole quotidiane

Con gli americani Napoli conobbe il “ginzo”, questo strano e resistente tessuto indossato dai ragazzotti del Nuovo Mondo, e impararono che per definire il valore di un bene, magari proveniente dal mercato nero, si poteva usare il termine “sechenenza”: una storpiatura, tutta napoletana, della locuzione inglese “second hand”.

“Hurry up” a Napoli diventa “orrioppo”, una parola che anche i napoletani emigrati in America ricordano come una delle più tipiche di questa commistione di culture, e il “business” diventa “bisinisse” (tanto celebre da entrare anche nell'italiano comune dell’epoca). Con gli Americani la città partenopea impara anche cosa sia un “batto”: una strana commistione fra il verbo “to buy” (acquistare) e “to bait” (confondere), usato per definire le attività della borsa nera e del contrabbando.

Una parola emblematica: lo "sciuscià"

La storia della Napoli degli anni Quaranta è piena di memoria che passa attraverso le parole e, a partire da esse, restituisce il ritratto di quella che doveva essere la città all'epoca della guerra. La figura più emblematica di tale situazione è quella, raccontata anche dal cinema, degli “sciuscià”: molto spesso ragazzini cenciosi di poco più di 10 anni d’età, che per racimolare qualcosa si dedicavano all'attività di lustrascarpe o, come li chiamavano gli americani, “shoeshine”.

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