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Covid 19

La lettera di Emma per gli zii morti di Covid: “Non vogliamo eroi ma una sanità efficiente”

La lettera di Emma Vinciprova, la nipote di Anna Gentile e Vincenzo Esposito, due commercianti di via Salvator Rosa, molto noti nel quartiere, morti entrambi di Coronavirus pochi mesi fa: “I giorni passano ma non riusciamo a smettere di pensare che forse almeno mia zia, se avesse ricevuto cure tempestive, si sarebbe potuta salvare”.
A cura di Antonio Musella
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Vincenzo e Anna
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Emma Vinciprova è la nipote di Anna Gentile e Vincenzo Esposito, due commercianti di via Salvator Rosa, molto noti nel quartiere, morti entrambi di Coronavirus pochi mesi fa. La loro è stata una storia emblematica di come è stata affrontata la pandemia in Campania e che Fanpage.it aveva seguito sin dall'inizio. Quando suo marito Vincenzo è stato ricoverato in rianimazione all'ospedale "Cotugno", dopo aver atteso invano un tampone a casa e aver atteso 4 ore in ambulanza per trovare posto in ospedale, a sua moglie Anna non viene fatto il tampone, nonostante sia giunta in ospedale con la febbre a 39.5.

La rimandano a casa, i familiari chiedono di poter fare il tampone, ma nessuno si fa vivo. Al numero verde "1500" fanno sapere che la situazione è critica e che i familiari della signora possono acquistare una bombola d'ossigeno e curarla a casa. La signora Anna è morta pochi giorni dopo nell'ambulanza che la stava portando in ospedale. Quella che segue è la lettera pubblica di Emma.

I primi giorni di marzo i miei zii, Anna Gentile e Vincenzo Esposito, iniziano ad accusare sintomi simil-influenzali. Nausea, dolori muscolari, stanchezza. La febbre è costantemente alta. Dopo qualche giorno si ritiene opportuno chiamare il "1500", uno dei numeri attivati per l'emergenza da covid-19, ma la risposta ottenuta è di rivolgersi a un medico curante. L'antibiotico prescritto non fa effetto. Ai numeri regionali non rispondono. Non viene fatta nessuna richiesta formale per i tamponi (nonostante l'aggravarsi dei sintomi: perché intanto mio zio accusa anche tosse e difficoltà respiratorie), che a quanto pare è l'unica possibilità nei primi mesi di pandemia di poter fare il test nella propria abitazione. I miei parenti devono mobilitarsi da soli. Il 17 marzo i miei zii vengono accompagnati all'ospedale "Cotugno", e si mettono in fila in attesa di ricevere i tamponi. Indossano mascherina e guanti, mantengono le giuste distanze, ma presentano i sintomi del Covid-19 e sarebbe stato opportuno ricevere assistenza domiciliare, anche per le condizioni in cui versano. Mia zia, che all'atto della misurazione della temperatura aveva 39.9 di febbre, durante l'attesa sviene e viene portata all'interno della struttura, dove forse le danno un antipiretico, fatto sta che la febbre scende di poco sotto i 37. A mia zia rifiuteranno il tampone, non ha febbre, non ha tosse, può andare a casa. Mio zio può invece effettuare il tampone. Dopo due giorni, il 19 marzo, riceviamo la notizia che mio zio è risultato positivo al covid-19. La sera stessa, dopo continue chiamate al 118 in vista dell'aggravarsi delle condizioni di mio zio, arriva finalmente un'ambulanza. Enzo ha un polmone collassato, nell'ambulanza vi resterà quattro ore, mancano posti negli ospedali. Finalmente viene ricoverato all'ospedale "Loreto Mare" dove viene intubato e messo in coma farmacologico.

I miei cugini non hanno ricevuto aggiornamenti ufficiali dall'ospedale circa le condizioni di mio zio durante la terapia intensiva. Intanto passano i giorni. Nonostante un caso accertato di Covid-19, né a mia zia, che intanto si aggrava, né a mia cugina che vive con i genitori insieme al compagno e al loro figlio di 15 mesi, effettuano il tampone. Sono tutti in quarantena, hanno fatto tutto da soli. Alla paura e all'angoscia per i miei zii si unisce la rabbia e il senso di abbandono. Le cure non funzionano e si arriva all'epilogo il 24 marzo. Mia zia sta male, è assente, manca di lucidità. Tossisce e ha difficoltà a respirare, è cianotica, le labbra viola. Vengono fatte ripetute chiamate al 118, non credono che una donna di 55 anni senza patologie pregresse possa avere difficoltà a respirare, riattaccano. Altra chiamata, chiedono di parlare con la signora, chiedono di attendere perché la situazione in città è critica, consigliano di comprare una bombola dell'ossigeno senza nemmeno darne istruzioni per l'utilizzo. I miei parenti sono stati abbandonati a loro stessi. In serata arriva, infine, l'ambulanza. Mia zia ha la saturazione al 55%, sta male. Durante la corsa in ambulanza va in arresto cardiaco. Non ce la fa. Non riceve il tampone neanche post mortem. Il 31 marzo a mia cugina viene effettuato il tampone, ma non al compagno, né al piccolo, i quali dovranno aspettare ancora diversi giorni. I primi giorni di Aprile si spegne anche mio zio. 

I giorni passano ma non riusciamo a smettere di pensare che forse almeno mia zia, se avesse ricevuto cure tempestive, si sarebbe potuta salvare. Non accetto che in una regione dove i contagi sono stati molto inferiori rispetto alle tre regioni più colpite ci sia stata da subito carenza di posti, non accetto che per trent'anni la sanità pubblica italiana sia stata smantellata, che dal 2010 ad oggi abbiamo 70 mila posti letto in meno. Non accetto negligenza in un settore essenziale del welfare, negligenza che non mi posso spiegare con la sola scusa della mentalità del napoletano medio, ma che è invece sintomo di un sistema ormai marcio a monte, in cui anche gli operatori, come i pazienti, sono abbandonati a loro stessi, costretti a lavorare sottopagati, fare straordinari non retribuiti, senza adeguati Dpi (dispositivi di protezione individuale), senza le risorse necessarie per svolgere un lavoro in sicurezza. Proprio mentre scrivo sento De Luca parlare di riavvio dell'economia, di centralità del lavoro. Ma centrale deve essere la sicurezza fisica e psichica del lavoratore.
Non vogliamo un Paese di eroi, vogliamo un sistema efficiente.

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