Una stella sulla Walk of Fame, incastonata in una mattonella del marciapiede di Hollywood Boulevard, un museo a Brooklyn con mostre itineranti, uno a Sorrento ed un altro a Lastra a Signa, alle porte di Firenze, nella villa Bellosguardo suo “buen retiro”, una celebre canzone di Lucio Dalla, un busto e un ritratto nel Metropolitan di New York, il teatro che lo consacrò leggenda della lirica. Finanche un asteroide, il 37573. Enrico Caruso è ricordato nel mondo con tracce indelebili che ne raccontano la straordinarietà del talento, eppure resta un esule nella città che gli diede i natali. Giace ancora nel dimenticatoio il progetto di un museo a Napoli dedicato al tenore che 145 anni fa nacque in via Santi Giovanni e Paolo al civico 7, quartiere San Carlo all’Arena.
Denuncia e provocazione – «Se a Marconi o a Garibaldi intitolassero una discarica, cosa ne penserebbero gli eredi?». Scuote dentro, la parola discarica. Federico Caruso, pronipote dell’artista, parla senza filtri, senza mezze misure, con quella passionalità che contraddistingueva anche il bisnonno. Sa che discarica ha un suono eccessivo, ma sa anche che solo marcando l’estremo costringi chi ti ascolta a fare i conti con la memoria bistrattata di un personaggio incomparabile. Scartata, appunto, proprio a Napoli, luogo dell’anima che la “voce dei due mondi” portò ovunque nelle sue esibizioni e a cui dette lustro, dall’Europa all’America. «Sono un’autentica discarica i giardinetti a piazza Ottocalli – dice – dove c’è il busto in memoria di Caruso, sepolto dalla sporcizia, e quando mi riferirono la cifra che costò, rimasi scandalizzato, avevano mangiato a quattro palmenti, una cosa indegna». Tutto a pochi passi dalla casa natale, dint San Giuvanniello, dentro San Giovanniello, a ridosso dell’antica dogana, quella piazza Ottocalli oggi stretta nel traffico e soffocata dal sovrastante ponte della tangenziale. Qui due mesi fa, in concomitanza dell’anniversario della nascita, è stato inaugurato un murales raffigurante Caruso e realizzato dal writer Corrado Teso sul muro dell’edificio dove ha sede il commissariato di zona, gigantografia considerata dall’amministrazione comunale un primo passo per la valorizzazione del posto. Ma il senso della parola discarica si spinge oltre, in quel gettar via, mettere in un angolo, una voce unica che ha incantato generazioni di melomani e non. «Possibile che a Napoli gli è stato intitolato soltanto un oscuro vicoletto?» si chiede ancora Federico, il cui accento toscano tradisce le origini della compagna, il soprano Ada Botti Giachetti, da cui il tenore ebbe i primi due figli, di cui uno, Enrico junior, è per l’appunto nonno di Federico. Via Enrico Caruso, poco più di cinquanta metri e sei numeri civici nel “lontano” quartiere dell’Arenella.
Le promesse non mantenute – Mai dimenticato, inoltre, il pasticcio a fine anni Novanta. «Una vera truffa – ricorda il discendente diretto del sommo cantore -. Ci contattò l’allora assessore alla Cultura Guido D’Agostino della giunta comunale allora guidata da Antonio Bassolino per organizzare una manifestazione in onore di Caruso, stilammo un preventivo di sei milioni di lire per la serata nella sala Gemito, con l’esposizione di cimeli provenienti dal museo americano gestito da Aldo Mancusi, l’esibizione di mio fratello Riccardo, anche lui tenore, un rinfresco. Ma i costi vennero fatti lievitare inspiegabilmente fino a trenta milioni di lire e alla fine non siamo stati nemmeno rimborsati per le spese di viaggio e trasporto, d’altronde solo quelle chiedemmo, dalla società organizzatrice Cosmofilm, pagata dal Comune ma che non pagò mai noi. Fu allora che ci venne promesso un museo nella casa di San Giovanniello che lo stesso Comune avrebbe dovuto acquistare ed inserire in un percorso artistico-culturale. Tutto è rimasto lettera morta». Nemmeno uno spazio, anche altrove (visto che la casa natale è di pochi metri quadrati in uno stabile fatiscente totalmente da ristrutturare) per dare il giusto tributo a Caruso. «Successivamente – continua – la sindaca Iervolino operò un intervento di restauro nella cappella di Poggioreale, dove sono conservate le spoglie del mio bisnonno, a causa di infiltrazioni d’acqua, ma poi il nulla. I napoletani, che amano Caruso, con cui abbiamo avuto a che fare sono stati eccezionali, disponibili, ma delle istituzioni meglio non parlarne».
Il museo a Sorrento – A stare dietro ai racconti di Federico, 68 anni, in pensione dopo un lavoro nel settore vinicolo, e che in gioventù si esibiva nello storico Piper con la sua band, ci si perde dietro ai ricordi d’intimità familiare e alle cronache di un secolo fa. Scende ogni anno da Viareggio, dove vive, a Napoli per una visita al cimitero di Santa Maria del Pianto e a Sorrento in occasione delle serate carusiane nel ristorante-museo, a pochi passi dall’Excelsior Vittoria, l’albergo dove l’ugola d’oro soggiornò nelle ultime settimane di vita, prima di morire a soli 48 anni a Napoli il 2 agosto 1921, e dove Dalla nel 1986 compose il celebre brano “Caruso”. Serate gastronomico-culturali curate da Guido D’Onofrio, studioso e collezionista carusiano di Foggia, che grazie all’ospitalità del proprietario del locale, Paolo Esposito, ha allestito nel 1998 un vero e proprio museo tra i tavoli, meta di migliaia di visitatori. Più di mille cimeli tra foto, 280 caricature realizzate dallo stesso tenore, articoli di giornale affissi alle pareti, e poi dischi a 78 giri originali da ascoltare attraverso preziosi grammofoni d’epoca. «A Napoli finora sono state fatte molte chiacchiere, ma niente fatti – commenta amaramente Guido, massimo esperto internazionale, uno dei più grandi estimatori e storici dell’arte carusiana -. Per questo l’idea del museo l’ho trasferita a Sorrento, donando parecchio materiale regalatomi dal figlio di Caruso, Enrico junior, mio caro amico. È qui che oggi abita Caruso nella sua terra. Le promesse finora? Tutte falsamente rassicuranti». Un patrimonio inestimabile che Napoli non ha mai tenuto in considerazione. «Non sono valse le mie preghiere e segnalazioni – afferma Guido -. Caruso non è stato una voce, è stato un miracolo. Non ci sarà un altro come lui per due, tre secoli, o forse non ci sarà mai più. A parte l’assurdità di un Comune che non possiede un locale da mettere a disposizione per un museo ad un artista che ci invidia il mondo, figlio carnale di Napoli, è altresì una mortificazione dedicare una strada di 50 metri ad un personalità come Caruso. Un esempio: lì vicino c’è via Cilea. Francesco Cilea, compositore calabrese che fu direttore del Conservatorio San Pietro a Majella di Napoli, non raggiunse di certo la notorietà e l’importanza di Caruso, eppure gli è stata attribuita un’arteria centrale e conosciutissima».
L’amore di Caruso per Napoli nonostante la delusione – Dava alla nota l’anima intera. «Caruso – ricorda il pronipote Federico – diceva sempre: se mi aprissero il cuore, ci troverebbero scritta una sola parola, Napoli. Non per niente è voluto tornarci a morire, anche se qui non cantava più dal 1901, cioè dalla famosa critica del barone Saverio Procida». Il 30 dicembre di quell’anno Caruso, emozionato e reduce dal successo nei teatri d’America e di Milano, in attesa di ricevere quei consensi e quegli applausi nella sua città natale che lo avrebbero reso veramente felice, si esibì finalmente al teatro San Carlo, nell’Elisir d’amore di Donizetti, in platea anche la nota penna del quotidiano teatrale Il Pungolo. «All’epoca si cantava con forme leziose, Caruso invece era un tenore verista, cantò di impeto, prendendo in contropiede pubblico e critica – spiega Federico -. Gli applausi ci furono, ma Procida giudicò l’interpretazione troppo irruente. Caruso se la prese proprio perché la critica veniva dalla sua città. Tornerò a Napoli solo per mangiare vermicelli a vongole, giurò. Promessa che manterrà sino alla morte». Allo stesso Procida toccò il compito di scrivere il fondo-epitaffio. Vent’anni dopo la critica arrivò la lode: “Fu il prototipo del tenore moderno. Egli incarnò il realismo musicale, fu il vocabolario della nuova lingua”. Ugualmente il rivale di Caruso, Fernando De Lucia : “Caruso aveva tre qualità che lo rendevano eccellente fra tutti i tenori contemporanei: voce, temperamento e… Napoli! Proprio così, nelle vibrazioni delle sue corde vocali c’era Napoli, l’anima immortale del nostro paese, della nostra gente, del nostro popolo che parla col cuore, come Caruso cantava col cuore! Egli dava vita alle battute del suo canto, quasi illuminandole con un raggio del sole di Napoli”.
Il mito e l’aneddoto – Fu mito già da vivo, Caruso. «A Villa Bellosguardo passava l’estate con la compagna Ada – racconta il discendente diretto -. Un giorno arriva una raccomandata, lui non è in casa e quindi si reca da Lastra a Signa all’ufficio postale di Firenze per ritirarla. L’impiegato gli chiede un documento di riconoscimento, ma Caruso l’ha dimenticato. L’uomo allo sportello insiste per l’accertamento di identità. Il mio bisnonno allora gli ribadisce: “Ma mi guardi, io sono Caruso”. “Non la riconosco, ma se è come dice, me lo dimostri cantando”, la risposta. Caruso non se lo fa ripetere due volte ed intona un’aria che fa riecheggiare gli acuti in tutto l’ufficio postale. Alla fine l’impiegato soddisfatto gli consegna la raccomandata. Ma mentre il tenore si allontana, lo richiama: “Commendatore, mi scusi, onestamente io l’avevo riconosciuta subito, ma vuol mettere il piacere di sentire cantare Caruso solo per me?”. Perché lui era una leggenda vivente».
L’appello a non dimenticare – Interprete dell’istinto, in ogni spettacolo l’attore in Caruso gareggiava con il cantante. Nella morsa di un pathos che guida e plasma, che si incarna nei personaggi, ma poi campa di vita propria, l’elaborazione psicologica si attardava nelle sfumature, nei contorni che obbedivano al “niente può essere raggiunto di notevole senza sofferenza. Invero io posso dire che ho sofferto nella mia vita per ogni lacrima che ho fatto versare ai miei ascoltatori”. Pathos che diventa vis fragilmente affilata. Il successo, la delusione al San Carlo, il tradimento di Ada, la popolarità oltreoceano, l’incontro e il matrimonio con l’americana Dorothy, la malattia, l’ultima visita del medico santo Giuseppe Moscati che restò al suo capezzale. C’è tutto nella vita di Caruso. Tutto ciò che ci appartiene, appartiene ad ognuno di noi, ed è per questo che, ascoltandolo, ci immedesimiamo nella mutevolezza emotiva, sua perché nostra, in un gioco di riflessi, scivolando o inciampando nelle note come fossero stagioni del sentire. «Napoli non può dimenticare Caruso, sarebbe un sacrilegio – dice Federico -. Anni fa passeggiavo con mio fratello a Long Island, ci imbattemmo in un ragazzo di colore che pattinava ascoltando musica in cuffia e cantando. Nice voice, bella voce, gli disse mio fratello. E lui rispose: I am Caruso, io sono Caruso. Lui giovanissimo, non napoletano, di altra epoca e altro popolo. Eppure per lui, americano, la voce è Caruso, the Voice is Caruso». E per i suoi concittadini?