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La rivolta di Barra all’arresto del boss: quel Mezzogiorno che odia la Legge

La ribellione avvenuta in seguito all’arresto del boss Luigi Cuccaro non è una novità, né a Napoli, né nel Mezzogiorno. È una frattura di costume, di mentalità, di senso comune, di abitudini sul significato e sulla percezione dei “vincoli di legge” in Quartieri-Stato divenuti “Zone franche” in cui il regime repubblicano è stato sostituito dall’autorità dei clan.
A cura di Marcello Ravveduto
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Operazione alto impatto del comando provinciale dei Carabinieri di Napoli, nei quartieri di Ponticelli e nel rione Conocal, ultimamente assurto alle cronache per il video del far-west in pieno giorno.
Operazione alto impatto del comando provinciale dei Carabinieri di Napoli, nei quartieri di Ponticelli e nel rione Conocal, ultimamente assurto alle cronache per il video del far-west in pieno giorno.

Giggino stava festeggiando l’onomastico con la famiglia in casa del cognato, pur essendo latitante. All’improvviso c’è stata l’irruzione dei carabinieri. Sarà stata questa “soperchieria” a far scendere la gente per strada nel vano tentativo di impedirne l’arresto. In testa, come al solito, le donne del clan, vaiasse e discinte, che hanno riempito di male parole i tutori dell’ordine. Le gentili signore avranno reclamato sicuramente un sacrosanto diritto che non si nega nemmeno a un criminale assassino: “festeggiare ‘o nnomme suoje in santa pace cu mugliere e figlje”. Da questo punto di vista i carabinieri sono dei fetenti senza cuore e “teneno pure a cazzimma”.

Si addensa, così, come una nuvola trascinata dal vento, la turba dei lazzari che vogliono salvare il capopopolo dalla galera di uno Stato che non c’è mai stato. Si tratta evidentemente di una delle tante giustificazioni a ribasso agitantesi dentro un fenomeno che non ha nulla di folkloristico o di sentitamente umano: l’unico obiettivo è dimostrare alle forze dell’ordine l’estraneità della loro presenza e il mancato riconoscimento dell’autorità statale.

Non è la prima volta che accade e non sarà l’ultima. Nel 1999, dopo un regolamento di conti nel rione De Gasperi (con un morto e tre feriti) tra i Sarno e i De Luca Bossa, all’arrivo della polizia gli abitanti, in prima fila come sempre donne e ragazzini, scagliano, contro gli agenti e le volanti, masserizie, bottiglie e rifiuti. Ribaltano i cassonetti e li trasformano in barricate per ostacolare l’avvicinamento delle forze dell'ordine al luogo dell'agguato, probabilmente per coprire la fuga dei feriti. La polizia per poter raggiungere il posto dell’agguato deve fare irruzione in assetto antisommossa.

Nella notte tra il 6 e il 7 dicembre 2004, in piena faida di Scampia, i carabinieri realizzano una vasta operazione che porta all’arresto di ben 51 affiliati. Al primo riflesso dei lampeggianti decine di donne, alcune in vestaglia e con i bambini per mano, scendono in strada per insorgere contro gli “invasori” che hanno osato presentarsi nel santuario dello spaccio, il “rione dei Fiori”, conosciuto come "Terzo mondo”. Alla vista delle divise partono i primi “jatevenne”; poi, nel giro di qualche minuto, i carabinieri sono circondati dalla turba vociante pronta a fare da scudo umano in difesa di mariti, fratelli, figli, nipoti, cugini, zii e “cumparielli” vari.

È solo una prova generale. Il mese successivo la Benemerita torna nel quartiere andando spedita verso l’abitazione di un’anziana disabile. Qui si nasconde Cosimo Di Lauro. Appena le famiglie del clan intuiscono cosa sta per accadere, organizzano una sommossa che coglie di sorpresa le forze dell’ordine, costrette, in un primo momento, ad arretrare di fronte all’esplosione della rabbia. In strada sono accorse oltre cinquecento persone che avanzano minacciose contro gli agenti, lanciando pietre e suppellettili. Appiccano il fuoco ai cassonetti e, prima dell’arrivo dei rinforzi, riescono addirittura a ribaltare un’auto dei militari, una «Punto», distruggendola a calci e pugni. Intere famiglie, guidate da donne incinte con bambini al seguito, si uniscono a formare una fiumana. Alla fine “Il corvo” è portato via solo grazie ad uno stratagemma diversivo. Nel solo 2005 ci saranno tredici episodi più o meno simili in occasione di arresti di boss e affiliati coinvolti nella guerra tra i clan della zona nord di Napoli.

Saltiamo al marzo 2008. Via Labriola, zona “Sette palazzi”. Un pregiudicato, Giuseppe Grassi (22 anni), è freddato in un agguato di camorra: era sentinella del clan Di Lauro, passato in seguito agli “scissionisti”. Quando sono arrivati sul luogo i carabinieri, era riverso in una pozza di sangue, ma la gente del posto invece di agevolare il soccorso si è preoccupata di proteggere i pusher messi a rischio dalla presenza dell’Arma che, in attesa dell’arrivo dell’ambulanza, ha dovuto fronteggiare un assembramento minaccioso il cui scopo era tenere a distanza le forze di polizia dalle attività di spaccio.

Scendiamo a Reggio Calabria. Nell’anniversario della Liberazione, anno 2010, la polizia riesce ad arrestare, in località Terreti, il boss della ‘ndrangheta Giovanni Tegano, 70 anni, inserito nell'elenco dei 30 latitanti più pericolosi del Ministero dell'interno. Il giorno successivo, davanti alla Questura, si radunano un centinaio di persone, affiliati e manutengoli della ‘ndrina, per manifestare contro la carcerazione del padrino. Le donne gridano: «Avete preso un uomo di pace» e subito dopo scattano gli applausi. Al questore Casabona, deluso e sconsolato, non rimanere che affermare: «E' una vergogna, noi aspettavamo gli applausi alla polizia, invece sono arrivati quelli al boss».

Più o meno lo stesso rituale, anche se non in forma così plateale, si ripete l’anno successivo, dopo la cattura di Michele Zagaria nella roccaforte di Casapesenna. Gli abitanti del paese, infastiditi dalle domande dei giornalisti, manifestano la loro solidarietà al concittadino arrestato. Una donna anziana dice: «Ho un buon ricordo del giovane Michele Zagaria che già all’età di 11-12 anni con sacrificio e dedizione lavorava nei terreni agricoli della sua famiglia, mica come i giovani d’oggi poco propensi al duro lavoro nei campi». Un muratore, mentre sorseggia il caffè al bar, dichiara: «un grande imprenditore che offriva occasioni di lavoro a tanti cittadini della sua Casapesenna, mica un camorrista», perché per il giovane in questione è camorrista solo chi agisce facendo del male agli altri, chi scioglie le persone nell’acido. Così, tanto per gradire.

Torniamo in Calabria. Agosto 2012. I carabinieri arrestano “Asso di bastone”, ovvero Celestino Abbruzzese di 67 anni, stanato nel quartiere Timpone Rosso di Cassano allo Ionio, in provincia di Cosenza. Abbruzzese è uno ‘ndraghetista di origine rom. Si nasconde avvalendosi della solidarietà della sua comunità. Era evaso qualche mese prima dal carcere dopo che i magistrati gli avevano revocato il regime di 41 bis per motivi di salute. Quando gli agenti effettuano il blitz, il popolo degli zingari si solleva per difendere il suo re, uomo di rispetto alla pari degli altri boss della ‘ndrangheta, bloccandoli all’interno del campo per l’intera nottata.

Arriviamo al 2015. Ad aprile la polizia coglie in flagrante uno spacciatore nello Iacp di Caivano (Napoli) che ha tentato di sottrarsi all’arresto non solo cominciando a minacciare gli agenti ma anche cercando aiuto della gente del rione per sottrarsi alla cattura. Dopo pochi minuti gli agenti sono stati circondati e spintonanti da un gruppo di persone che hanno consentito al giovane di fuggire. Rintanatosi in un appartamento, i poliziotti hanno dovuto fare irruzione e affrontare una violenta colluttazione con lo spacciatore e i suoi difensori, terminata, per fortuna, a loro favore.

L’ultimo caso risale a tre giorni fa. Una notizia passata inosservata, sotterrata dal flusso inarrestabile delle informazioni. Alcuni poliziotti, insieme ai Vigili del fuoco, si sono recati allo Zen 2 a Palermo per eseguire dei controlli sull’agibilità dei box auto. Mentre si accingevano ad aprire gli ingressi dei garage, gli agenti e i pompieri sono stati accerchiati da decine di residenti che non hanno permesso di proseguire le verifiche. Sono dovuti arrivare i rinforzi per sedare la nascente rivolta e poter continuare le ispezioni.

In quest’ultimo caso non c’era un boss da difendere ma un principio da tutelare: i Quartieri-Stato dove le mafie detengono il consenso sociale si sono configurati, nel corso degli anni, come delle “Zone franche” sottratte al controllo delle forze di polizia. Porzioni di territorio, poste al di fuori dell’area legale di convivenza civile, in cui il regime repubblicano è stato sostituito dall’autorità dei clan che qui esercitano, in sostituzione dello Stato, il monopolio della violenza con un proprio esercito e con propri tribunali, finanziati da una tassazione criminale parallela e dall’indotto economico del narcotraffico, attraverso il quale si distribuiscono lavoro, soldi e ricchezza.

Dunque, l’applicazione della legge viene percepita come una specie di arbitrio, di scelta discrezionale, quasi un abuso, un’invasione di campo. A chi entra in quei territori, pur portando le insegne della Repubblica, non viene riconosciuto un obbligo istituzionale poiché quelle stesse istituzioni per lungo tempo hanno lasciato proliferare, senza interferire, una forma di economia locale incentrata sull’espansione dei mercati illegali/criminali. La legge perde, così, la sua forza morale e i suoi obblighi perentori, in quanto fuori da essa è stato possibile regolare realtà sociali alternative e produttrici di benessere.

Può succedere, allora, che l’applicazione della norma venga percepita come “prevaricazione”, come “soverchieria” e chi l’adotta come un irresponsabile, un guastatore di equilibri, un fanatico. Questo è il motivo che spinge alla rivolta quando si procede all’arresto degli abituali organizzatori e beneficiari di mercati illegali, dopo anni di tolleranza e di non invasione di campo.

Nella reazione violenta, a volte di massa, contro le forze dell’ordine si manifesta la rabbia sociale di chi sente che, senza quelle attività illegali, non ha possibilità di sopravvivenza, né di benessere, né di ascesa sociale e considera la repressione un tradimento dello Stato, di quell’accordo implicito in base al quale, in assenza di altre opportunità, a loro sia destinato il controllo dell’illegalità, nonostante la legge sancisca che quelle attività siano reato.

In diverse aree del Mezzogiorno c’è una frattura di costume, di mentalità, di senso comune, di abitudini sul significato e sulla percezione dei “vincoli di legge”. Ciò che è legge non si identifica immediatamente con ciò che è giusto e utile come garanzia e tutela per tutti. Una parte consistente della popolazione sente la legge ingiusta, arbitraria, non in grado di farsi carico delle elementari esigenze di vita. Per radicare il senso della legge in siffatta situazione, si è arrivati a considerarla non come un vincolo di regolazione della vita collettiva, ma come un limite elastico capace di spostarsi a seconda delle esigenze di contenimento del disagio sociale. Una specie di “morale della sopravvivenza” urbana ha avuto il sopravvento sulle esigenze di mantenimento di una civile e moderna convivenza. Il confine morale non è la Legge dello Stato, ma quella della sopravvivenza. «La rovina della casa è l’uomo onesto», dice un personaggio di una poesia di Eduardo De Filippo.

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