L’aspetto della creatura mitologica ricorda quello dipinto sullo stamnos, o contenitore per liquidi, attico del V secolo a.C. conservato al British Museum e raffigurante Odisseo, legato all’albero della nave, che resiste al canto di tre sirene in volo, metà donne e metà uccello. Tra loro c’era anche Parthenope, il cui corpo spiaggiò sull’isolotto di Megaride nel golfo di Napoli, dove ebbe origine la città. Sul coccio rinvenuto la settimana scorsa negli scavi di Paestum, appena dissotterrato, il fantastico animale ibrido riconsegna i colori ancora vividi di un vaso della prima metà del VI secolo a.C. Ceramica presumibilmente corinzia, per tecnica, stile e composizione dell’impasto, in un’iconografia alata che anticipa la donna-pesce con cui, solo in epoca più tarda, verrà identificata la sirena. La mano di Gabriel Zuchtriegel, alla guida del Parco archeologico da due anni e mezzo, l’ha mostrata al mondo, in diretta social, attraverso una foto che restituisce intatta l’emozione della scoperta.
«Ma non è l’estetica di un reperto a dare il valore del ritrovamento» ci tiene subito a precisare il direttore. Parola di archeologo che ha come obiettivo «la ricostruzione della storia – dice – a partire anche da frammenti meno belli, ma che possono fornire dati unici per valutare correttamente il contesto». Insomma, la bellezza come mezzo di conoscenza, non come fine di ricerca, condensata nel lavoro meticoloso di chi restaura il passato, pezzo dopo pezzo, ricompone le azioni umane. Piccole, quotidiane, che si incastrano dentro una narrazione più ampia. Come quelle che rendevano vivo il quartiere antico dove in questi giorni si sta scavando, oltre la maestosità dei templi che hanno reso famosa Paestum. «Quest’anno prosegue l’indagine della città arcaica pre-romana, alle spalle del tempio di Nettuno – spiega Zuchtriegel -. Abbiamo già individuato una grande struttura in blocchi, uno spazio domestico con pozzo, ora ne stiamo approfondendo la funzione e l’estensione».
Due le archeologhe vincitrici della borsa di ricerca finanziata, per il secondo anno consecutivo, dal pastificio Antonio Amato, Elisa Biancifiori e Serena Guidone, dietro le tracce nel settore settentrionale dell’abitazione, datata tra la fine del VI e gli inizi del V secolo a.C., relativo alla fase greca. Un momento preliminare delle ricognizioni che ha fornito oltretutto informazioni preziose sul periodo lucano dell’abitato, cioè riferibile, ad esempio, alla celebre Tomba del tuffatore. Uno scavo sotto l’occhio vigile di Zuchtriegel, ma anche lo sguardo curioso dei visitatori sul posto. E non solo. L’escursione nel tempo a Paestum si può seguire su Facebook, Twitter e Instagram, in linea con i nuovi modi di raccontare la storia. «Rendere partecipi tutti delle nostre scoperte non scoraggia di certo a visitare il sito successivamente – avverte con garbo e sicurezza il giovane direttore -, anzi. È un modo per accendere la curiosità, condividere interrogativi, far comprendere le difficoltà del nostro lavoro, una sorta di backstage di ciò che si vedrà alla fine definito nel museo, tra le vetrinette espositive o nell’allestimento di una mostra».
Nella terra delle sirene. Da quella scolpita sulla porta lato est di Paestum, Porta Sirena appunto, a quella della fontana cinquecentesca Spina Corona, cosiddetta delle “zizze”, addossata al muro di una traversa del corso Umberto di Napoli. A quella venuta, ora, alla luce sopra il pezzetto di vaso pestano. Con le ali o con le pinne, la melodia «Ferma la nave, ascolta la nostra voce», ricordata nel XII libro dell’Odissea, ritorna ad ammaliare.