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L’attesa a Secondigliano: il presepe nel ghetto e la sedia vuota dell’accoglienza

A camminare per le strade del quartiere nella periferia nord, sotto Natale, capita di ripercorrere la storia di duemila anni fa tra emarginazione, abbandono e rabbia. Fino alla provocazione, nella parrocchia dell’Immacolata, della mangiatoia che si trasforma in moderna frontiera dell’esclusione con tanto di muro e filo spinato.
A cura di Claudia Procentese
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Attraversi interi rioni al buio, senza luminarie natalizie, mentre il gelo ti dà il senso oggettivo delle distanze e accelera i passi. Poco dopo il tramonto è uno slalom cieco tra cassonetti stracolmi d’immondizia e vecchi materassi sdraiati sui marciapiedi di una inciviltà irriducibile. Chiedersi perché a Secondigliano manca la tradizionale luce delle feste che illumina le strade nel solstizio d’inverno significa cadere nella interminabile polemica sull’amministrazione comunale matrigna che fa figli e figliastri, sul non ci sono soldi, sul si stava meglio nel secolo scorso, sul tanto qui in periferia chi ci viene. Fa da contorno la consapevolezza che la lotta alle tenebre è comunque difficile durante tutto l’anno, se nel piano comunale per l’ammodernamento e l’efficienza energetica non c’è nessuna via della settima municipalità interessata dagli interventi di restyling. Qualcuno lo dice: “Luminarie? Ma se non accendono nemmeno i lampioni!”. Lo sussurra, ormai. Perché è la rabbia a effetto aspirina: prima le vivaci bollicine dell’effervescenza, poi l’indolente brina sul vetro del bicchiere. Perché la denuncia in questo quartiere ha poca voce o è poco ascoltata.

È chiuso l’unico spazio comune di svago e divertimento, il parco san Gaetano Errico, dopo l’inchiesta sui custodi “furbetti del cartellino” in mezzo alla carenza di risorse e ai vandali senza scrupoli. Sono chiusi da anni i cinema, i teatri. Hanno chiuso da tempo le fabbriche che garantivano posti di lavoro onesto. Stanno chiudendo i negozi storici che hanno animato la vita del quartiere, a partire da quell’indimenticabile “struscio” sul corso principale fatto di chiacchiere e acquisti, oggi diventato caotico shopping soffocato dalle bancarelle abusive e dal traffico indisciplinato. Aprirà un sito per il trattamento dei rifiuti nel vicinissimo quartiere di San Pietro a Patierno, progetto osteggiato perché calato dall’alto. Aprirà un centro per migranti in un bene confiscato alla camorra che già al primo e timido annuncio ha scatenato, sul filo della xenofobia, le proteste dei residenti, feriti dall’assenza di dialogo istituzionale. Apriranno forse altre piazze di spaccio di stupefacenti, ma fin quando il numero dei morti ammazzati non diventa notizia, non ci saranno operazioni “Alto impatto”. In verità mancano pure le “divise” deputate alla sicurezza e all’ordine pubblico. E questa volta non c’entrano faide e guerre di camorra di una periferia che ha alimentato il business del noir d’autore. Mancano i vigili urbani, le “divise” di prossimità, che avvicinano lo Stato alle sue frontiere. E alla fine, nello scompiglio generale, non c’è da meravigliarsi se poi ci si imbatte in chi inneggia alla scissione, confondendola con la secessione, solo perché il primo termine qui è più frequentato: Secondigliano si stacchi da Napoli, Secondigliano Comune a sé. L’ala moderata del fronte separatista avverte, però, che per la rinascita, prima del governo autonomo, serve un voto non regolato dalle clientele dei potentes. Altrimenti tutto cambia per rimanere com’è.

Eppure ci sono storie di luce che nascono al finire dell’anno, come un pegno da spendere più in là, quando se ne indosserà il senso. Ieri in una grotta, oggi in un ghetto. Poiché “per loro non c’era posto nell’albergo”. A destra san Giuseppe e Maria in attesa del Bambinello, a sinistra una sedia vuota, al centro un muro alto con il filo spinato. Il presepe della parrocchia dell’Immacolata Concezione a Secondigliano è l’incipit di una storia sospesa. «Il muro siamo noi, noi che lo alziamo, che non facciamo spazio all’accoglienza, e così la sedia resta vuota» spiega il parroco, don Doriano Vincenzo De Luca, mentre si prepara alla messa vespertina. È impegnato a parlare con i visitatori della piccola sala all’ingresso della chiesa di Capodichino dove è allestito un mercatino di beneficenza per il reparto pediatrico di un ospedale in Armenia. «Noi che discettiamo su tutto – dice -, commentiamo, giudichiamo. Troppe opinioni, facciamo silenzio». Il sacerdote ammette la provocazione, «ma è una santa provocazione – aggiunge sorridendo – perché il Natale deve servire a far riflettere, il presepe tradizionale lo troviamo ovunque, approfondiamo di più quello interiore». Accanto alla sacra famiglia a grandezza naturale c’è una gigantografia dei profughi siriani che scappano da Aleppo, dalla parte della sedia, invece, una riproduzione delle “Sette opere di misericordia” di Caravaggio. Non c’è pace in questa Natività, la si aspetta. La sedia vuota (presente anche nella celebrazione della Pasqua ebraica, il Seder di Pesach) rappresenta allo stesso tempo l’assenza del Messia e la certezza della sua venuta da un momento all’altro, ma solo se il muro cadrà. In fondo, nell’eterno scontro tra guelfi e ghibellini, romani e cartaginesi, Montecchi e Capuleti, che ce ne facciamo del messaggio d’amore se lo accartocciamo nei baci Perugina? Il racconto continua su quella seggiolina impagliata, scampolo di spazio, di un sogno da saper vedere e farselo bastare. L’orizzonte e il suo limite, insieme. Il vero Natale forse, per credenti e non, sta proprio qui. Ai margini. Lontano dalla festa preconfezionata e dentro il buio dell’emarginazione impotente. Nell’attesa del nuovo e dei ritorni. Quando farà luce.

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