Si vede il Vesuvio dal balcone di Maria Rosaria, oltre le Vele. Ma solo adesso ci si può affacciare, perché fino a qualche giorno fa la ringhiera era traballante, sospesa nel vuoto, c’era il rischio di cadere giù. Il figlio di Maria Rosaria, fabbro, ha evitato il peggio sistemando una staffa di ferro al muro come rinforzo. Fabbricato 18, scala B, interno 4, in via Labriola. Uno dei 188 alloggi cosiddetti sostitutivi, in buona parte consegnati lo scorso novembre a chi da decenni abitava nelle Vele ed aspettava, da legittimo assegnatario, una casa vera. Alloggi nuovi di zecca, dunque, appena costruiti, eppure ci sono già macchie gialle di umidità sui soffitti e pareti scrostate per le infiltrazioni d’acqua, gli ascensori non sono mai andati in funzione ed il vano laterale è aperto con il pericolo di precipitarci dentro, le serrature dei portoni non hanno chiavi e chiunque può intrufolarsi negli stabili, nelle scale manca il corrimano arrecando disagio a disabili ed anziani, i sanitari sono stati trovati solo appoggiati in bagni senza finestre, gli infissi interni scollati, le tettoie esterne in lamiera leggera sono già corrose e malferme.
Maria Rosaria fissa date, come se sofferenze, speranze ed emozioni debbano essere contenute in limiti numerici per poter essere narrate, perché c’è sempre un tempo che si sottrae alla presa diretta dei sensi, un fuori campo che sfugge alla logica. Perché apprendere la sofferenza non sempre significa capirla. Ricorda il giorno che ha messo piede nel nuovo alloggio dopo 37 anni trascorsi nella Vela Verde. «Sono arrivata nelle Vele il 16 maggio dell’80, prima del terremoto – racconta -, venivamo dal parco Ice Snei di Miano. In questa nuova casa, invece, sono entrata il 12 novembre del 2016. Gli ascensori come erano fuori uso nelle Vele, così lo sono qui. All’inizio ci dicevano che era per evitare il sovraccarico durante i traslochi, quattro giorni fa durante un collaudo ci hanno detto che mancano alcuni pezzi. Me lo sento ripetere da quarant’anni». È la paura dei corsi e ricorsi storici di chi è abituato a trasformare il caos in un microcosmo vivibile, quasi un atto di fondazione della dignità umana che viene prima dell’abitare. La denuncia dei nuovi inquilini è chiara, a voce alta, anche se conserva il pudore del “miracolato”, dello scampato all’inferno, che quasi si vergogna a lamentarsi. «Ma la casa è un diritto – puntualizza Francesco, il marito di Maria Rosaria – e qui in ballo ci sono soldi pubblici, soldi che la comunità ha destinato a questo diritto. Spesi male, se ci sono queste incompletezze, come le infiltrazioni d’acqua. Se oggi è così, cosa possiamo aspettarci tra qualche inverno? Nel giro di quattro mesi sono caduto tre volte dalle scale perché gli ascensori sono fermi ed io, con problemi alle gambe, devo salirle appoggiandomi al muro senza corrimano».
Uscendo dalla palazzina, lungo i portici che affacciano su via Labriola, dentro il lotto M dove il vecchio convive con il nuovo, anche Anna si sfoga amareggiata: «Mia madre, quindici giorni fa, è inciampata sui gradini e si è rotta il piede. Sono andata negli uffici municipali per denunciare e mi hanno risposto “siete stati tanti anni senza ascensore”, sono rimasta senza parole». Ti accompagna, Anna. Ti indica da lontano la Torre A, la Vela Verde, dove ha vissuto 36 anni, dove ha cresciuto i figli tenendoli lontano dai tentacoli della malavita, «li ho seguiti peggio di una poliziotta – dice -, se non hai una famiglia forte alle spalle, nelle Vele ti perdi». E lei ti fa strada, ti guida fino agli altri appartamenti nuovi in via Gobetti. Edifici non più gialli come quelli di via Labriola, ma grigi e rossi perché «sono stati costruiti da un’altra ditta, qui è Brancaccio, lì è Siop» ribadisce Enzo che si è aggiunto ai racconti. Alla fine sono i colori che a Scampia danno nome e anima alle cose. Via Gobetti, isolato B, scala C, quinto piano. Anche qui ascensori fermi. Un’altra scusa. «Ci hanno detto che manca la linea telefonica per le chiamate di sicurezza – spiega Patrizia -, e intanto il mio compagno cardiopatico deve farsi cinque piani a piedi ogni volta». Patrizia ha vissuto vent’anni nella Vela celeste, si è trasferita nei nuovi alloggi il 17 novembre. «Già durante il primo sopralluogo, prima di spostarmi, avevo notato molte cose che non andavano – continua -. Per coprire gli sbagli è stato usato ovunque il silicone, pure per tenere in piedi i vetri delle finestre. La vasca da bagno non era fissata e i battenti delle porte sono penzolanti. È assurdo che in una casa nuova siamo costretti a pagare di tasca nostra tutti questi interventi di manutenzione, addirittura rifare le serrature ai portoni perché non ci hanno dato le chiavi. Inoltre avevo chiesto un appartamento ad un piano più basso per motivi di salute, ma le assegnazioni non sono state del tutto trasparenti».
Lungaggini burocratiche, contenziosi, ritardi nei cantieri. Tre Vele abbattute su sette, decenni di attesa nelle graduatorie ERP, il trasferimento a novembre nel nuovo complesso di edilizia popolare, l’ultimo bando di 40 alloggi per chi si trova in situazione di bisogno. Una storia lunga più di trent’anni con l’annuncio del rush finale la settimana scorsa. Il 6 marzo, dopo l’incontro a Roma per la firma della convenzione sulle periferie, il sindaco Luigi de Magistris ha annunciato che entro l’estate sarà abbattuta la prima Vela, quella Verde. L’intervento, da 18 milioni di euro secondo il progetto Restart Scampia, prevede la demolizione immediata delle Vele A, C, e D, cioè Verde, Gialla e Rossa, e la rigenerazione della vela B, quella Celeste, temporaneamente destinata ad alcuni nuclei familiari, utilizzata successivamente per funzioni pubbliche. Tutto nell’ottica di trasformare il degradato quartiere dell’area nord di Napoli in cuore pulsante dell’intera area metropolitana.
«È vergognoso – afferma il consigliere dell’ottava Municipalità Lucio Acciavatti, Pd – consegnare gli alloggi, dopo tanti anni e ritardi dovuti anche alle vecchie amministrazioni, con simili carenze di progettazione che, visti gli errori passati, non dovevano capitare. Case non soltanto costruite in economia con i soldi pubblici, ma su cui si è velocizzato troppo nella consegna per motivi di campagna elettorale. Tempi affrettati e cittadini usati. L’abuso di silicone fai da te indica che all’ultimo momento bisognava correre ai ripari. Gravissimo, poi, il non funzionamento degli ascensori ed il vano laterale chiuso con lucchetti di plastica, basta un momento di disattenzione o l’incoscienza di un bambino e qui ci scappa la tragedia. Sono mesi che denunciamo. La Vela Verde abbattuta prima dell’estate? Non ci credo, perché costruire è facile, demolire è cosa complessa, soprattutto se ci troviamo di fronte alla presenza di amianto come nelle Vele. Inoltre, nel piano di fattibilità non si parla più di fasce di rispetto, di interventi socio-economici, oltre l’abbattimento. Dopo le ruspe cosa resterà? Il vecchio coordinamento Vele già vent’anni fa non chiese soltanto la casa, ma rivendicò dignità, riqualificazione, sviluppo. Oggi come allora occorre un tavolo che coinvolga in primis cittadini e municipalità, ente che conosce meglio il territorio. È un momento storico che non possiamo permetterci di sciupare perché altri soldi non arriveranno così facilmente. Bisognerà spenderli bene con l’impegno e il controllo di tutti».
Il cronoprogramma già definito di Palazzo San Giacomo non ha dubbi: la Vela Verde andrà giù a giugno. «Attendiamo, ma non ci crediamo» dice Patrizia. Un’attesa che da queste parti suona alla stregua di uno stare in bilico. Come la ringhiera traballante di Maria Rosaria, dentro il lotto M, di fronte il Vesuvio.