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Vela demolita, la gente di Scampia conserva pietre come il Muro di Berlino

Ieri mattina, dopo l’inizio delle operazioni di abbattimento, i frammenti della Vela verde si sono trasformati in oggetto-ricordo e pezzi da collezione storica, un po’ come accadde in quell’iconico giorno del 1989 per il Muro di Berlino. Il quartiere diviso tra chi spera nel riscatto e chi non sa ancora cosa sia.
A cura di Claudia Procentese
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La pinza demolitrice ha appena smesso di funzionare, dopo il suo battesimo un paio d’ore prima, e già c’è chi chiede all’operaio nel cantiere dietro la transenna “posso avere un ricordo?”. Sotto gli alberi di fronte la Vela verde di Scampia, che cede ai colpi dell’escavatore cingolato, comincia lo scambio di pietre come souvenir da portarsi a casa. Viene in mente quel novembre del 1989 a Berlino quando i Mauerspechte, i “picchi del Muro”, smantellavano e si mettevano in tasca i suoi frammenti. Una sorta di sublimazione della materia: non più maceria della sofferenza ma testimonianza della rivincita.

È il cemento che ha tenuto in piedi per sessant’anni uno dei quattro giganti superstiti nel lotto M di Scampia. Non tutti gli spettatori dell’abbattimento, però, cedono al desiderio di appropriarsi di questi mattoni che con il tempo potrebbero diventare pezzi unici da collezione storica. “E se dentro c’è l’amianto?” si chiede un uomo che, impaurito, dissuade l’amico dall’afferrare la pietra messa in esposizione su un tronco d’albero tagliato. A pochi passi l’architetto Massimo Santoro, dirigente del servizio comunale Pianificazione Urbanistica attuativa, sta rilasciando un’intervista: «È una demolizione controllata, abbiamo svuotato la Vela da amianto, rifiuti e da tutto quello che non poteva essere riciclato. Dopo l’abbattimento i materiali saranno lavorati attraverso un impianto per il trattamento degli inerti e saranno riutilizzati per la sistemazione esterna dell’area». Eppure qualche “materiale” finirà in vetrinetta.

Sono da poco passate le 11 quando, ieri mattina, il braccio meccanico del “dinosauro roditore” PMI 980 si alza e la tenaglia inizia a rosicchiare i parapetti dei balconi, seguita di lato da un macchinario uguale ma più piccolo. Ogni morso fa rumore come un respiro agonizzante nella carne viva. La Vela ha una storia e un’anima, l’emozione è difficile da contenere. Va giù un mondo, di lotta, speranza e dolore. Nel recinto dei giornalisti venuti da tutto il mondo il sindaco su un palchetto proclama il “miracolo laico”, subito dopo il discorso del Comitato Vele e la dedica al loro storico leader Vittorio Passeggio assente. La folla assiepata in via Antonio Labriola chiusa al traffico fa da sfondo ai selfie smaniosi da ogni angolazione, mentre la polvere sottile che sa di cemento ha già invaso l’aria. Nevica polistirolo, isolante termico usato nell’edilizia, trasportato dal vento. E qualcuno scherza: “Nevica cocaina”. È la battuta di chi abita qui e ironizza sullo stigma per alleggerirlo.

I ballatoi della Vela celeste, di fronte quella verde, sono pieni di persone affacciate. Tra loro Adele fissa, dal quarto piano, il panorama sottostante e commenta: «Guarda lì, c’è pure il tavolo del buffet per festeggiare, ma per me è un peccato abbattere case. Se poi al posto della Vela devono farci un altro campo di pallone, a noi non serve». Alla domanda “ma vivere nelle Vele è un inferno, non è meglio un appartamento più dignitoso?” la risposta è un’altra domanda: «E chi ci assicura che costruiranno altre case più dignitose? C’hanno messo quarant’anni per fare quelle nuove e non per tutti». Adele ha 18 anni e aspetta che il padre tra qualche giorno ritorni a casa per gli arresti domiciliari. «Sta a Poggioreale per droga da quattro anni e mezzo – conteggia con caparbia precisione –, il pm sparò dodici anni, ne ha avuti otto, gliene hanno scalato due, restano altri due e otto mesi». E racconta: « Sono nata nella Vela gialla, la mia famiglia si è trasferita poi a Giugliano e a Melito. Ora sono ritornata qui». Con un sogno. «Voglio sposarmi – dice –, il mio fidanzato fa il macellaio, mi vedo mamma e casalinga. Anche qui, in questa Vela che adesso è casa mia». Fierezza o incoscienza. O forse mentalità di un mondo invisibile.

L’escavatrice ha spento i motori. Ricomincerà l’indomani per altri 39 giorni come da programma. Nel punto opposto allo spettacolo, in un varco tra i pannelli di alluminio che circondano il cantiere, c’è chi spia. Niente flash dei fotografi e obiettivi delle telecamere, né applausi né cori. Ci sono un vecchietto e qualche giovane che chiedono dietro l’inferriata cosa sia quel rumore ad un guardiano che spiega loro ogni dettaglio. C’è un mondo che resta fuori e non sa ancora del riscatto di Scampia.

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