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Entrano baby criminali, escono camorristi: perché alcune comunità per minori non funzionano

L’universo delle comunità che ospitano i minori dell’area penale è fatto di tante realtà piccole ma efficienti ma anche di operatori improvvisati, di volontari che volontari non sono, di speculatori. C’è ad esempio gruppo di cooperative sociali che operano in provincia di Caserta che fanno capo a familiari stretti di esponenti di primissimo piano del clan del clan dei Casalesi.
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Un piede ben piantato ai Colli Aminei, nel Centro per la giustizia minorile di Napoli. Un altro solidamente ancorato in provincia di Caserta, tra Santa Maria Capua Vetere, Casal di Principe e Casapesenna. Una mano protesa verso la Sicilia, con l’obiettivo di espandere l’attività e di allargarla, magari, all’accoglienza a tutto tondo. Una robusta reputazione guadagnata negli anni negli ambiti dei servizi socio-assistenziali. Una rete familiare gravemente compromessa da condanne per mafia, così inquinata da sconsigliare a chiunque di operare in settori tanto sensibili. Intendiamoci: esseri figli, nipoti, sorelle di uomini del clan, anzi di esponenti di punta dei Casalesi e fondatori dello stesso cartello camorristico, non è un reato. Anzi, nella Campania dei cinquecentocinquanta comuni, in prevalenza sotto i diecimila abitanti, è quasi impossibile non avere parentele ingombranti. Ma è quanto meno un paradosso che a loro sia demandata la riabilitazione di minori agli arresti domiciliari o “affidati” in prova, piccoli camorristi delle paranze napoletane o giovani spacciatori dell’agro aversano. E che la sede operativa di cotanta riabilitazione sia a qualche centinaio di metri dalle case della famiglia Zagaria, in un paese – Casapesenna – dove è impossibile immaginare lavoro esterno o semplici passeggiate al sicuro da cattivi incontri. Eppure va proprio così. C’è un gruppo di cooperative sociali che operano in provincia di Caserta che fanno capo a familiari stretti di esponenti di primissimo piano del clan dei Casalesi: a Francesco Schiavone “Cicciariello”, cugino e omonimo del boss chiamato Sandokan e come lui condannato all’ergastolo e detenuto al 41 bis; a Carlo Del Vecchio, nipote del primo, per anni (e fino alla condanna per omicidio) referente del clan nell’area di Capua Santa Maria Capua Vetere; e all’entourage della famiglia Zagaria. Cooperative che gestiscono le carceri minorili private, cioè le case di accoglienza che ospitano i detenuti più giovani.

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Seguendo il filo delle deviazioni avvenute in alcune case-famiglia casertane, tra le quali i filmini girati di notte da Kekko “il nano”, il ragazzino che il 18 dicembre del 2017 accoltellò un coetaneo, Arturo, in via Foria a Napoli, la Squadra Mobile di Napoli si è trovata dinanzi a uno scenario inquietante, ancora tutto da approfondire. L’universo delle comunità che ospitano i minori dell’area penale (ma anche i “civili” in stato di momentaneo abbandono o gli stranieri non accompagnati) è fatto di tante realtà piccole ma efficienti ma anche di operatori improvvisati , di volontari che volontari non sono, di speculatori. E di un colosso con mire espansionistiche e una dubbia compatibilità territoriale.

Edv Service, Rosanna e Massimo Zippo

Il colosso si chiama “Serapide”, ha sede a Casagiove presso lo studio di Eufrasia Del Vecchio, nipote, figlia, sorella di Serapide è l’ente gestore di alcune case-famiglia. Le più importanti, la comunità alloggio Sant’Elena, a Casapesenna, e L’Incontro, a Santa Maria Capua Vetere. Eufrasia Del Vecchio, attraverso la Edv Service, si occupa della gestione amministrativa e legale delle comunità e della selezione del personale; la sorella Rosanna è socia fondatrice di Serapide assieme a Massimo Zippo, di professione parrucchiere (gestisce un negozio a Casal di Principe), amministratore unico della coop.

Tutto in regola? Gli investigatori di via Medina non ne sono convinti. Trovando, nel frattempo, un baco nella legge: le procedure di accreditamento non prevedono l’informativa antimafia allargata; i rapporti tra enti locali (ma anche con il Centro per la giustizia minorile) sono sostanzialmente fiduciari, dipendenti da sopralluoghi sanitari e verifiche solo cartacee sulla validità dei progetti. Nulla sulla proprietà degli immobili, nulla sulla genesi societaria, nulla sull’effettiva adesione al protocollo “Wendy torna a casa” siglato oltre dieci anni fa con il ministero della Giustizia.

Criticità che erano emerse anche in un altro caso, sempre all’attenzione della Squadra mobile di Napoli: la detenzione comoda, troppo comoda, garantita ai figli di esponenti di primo piano della camorra napoletana. E se qualcuno ha osato rispettare le regole e il protocollo, ecco arrivare – su richiesta dei familiari del minore (cioè della camorra) – la sospensione della convenzione con la coop troppo severa. Il caso era stato denunciato sei mesi fa dall’avvocato Carlo De Stavola, difensore dei responsabili della coop Oltre che ha gestito, in provincia di Benevento, a Telese, a comunità Altrove. Comunità che è stata costretta a chiudere i battenti senza che ai responsabili sia mai stata data alcuna spiegazione.

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Il fatto, raccontato da Fanpage.it il 2 luglio dello scorso anno : ai responsabili di cooperativa e comunità, Roberto Giuliano e Patrizia Tubiello, il 4 luglio del 2017 era stata sospesa la convenzione con il Centro per la giustizia minorile di Napoli. L’antefatto: a maggio dello stesso anno era stato affidato un minore accusato di rapina aggravata con recidiva. Ragazzo difficile, refrattario a regolamenti e leggi, chiuso, ombroso. Agli operatori della comunità era stato assicurato che proveniva da una famiglia normale. E invece quella famiglia aveva chiesto, anzi preteso, per lui un trattamento di favore: libertà di movimento, telefonino in camera, wifi libero. Al rifiuto era scappato. Evasione regolarmente segnalata ma l’annotazione (ovviamente obbligatoria) aveva provocato una sorta di richiamo all’ordine e di diffida agli operatori. Qualche settimana dopo il trasferimento in altra comunità più “comprensiva” e accomodante e la sospensione della convenzione tra il Centro per la giustizia minorile e Altrove. Decisione nata dopo un esposto firmato dai genitori del ragazzo e veicolato dall’assistente sociale che lo aveva in carico. Nessun cenno, nelle relazioni, al reale contesto familiare e sociale di provenienza. Il minore è un nipote, infatti, di quel Salvatore Dragonetti ucciso tre mesi dopo – il 6 settembre – al Borgo Sant’Antonio Abate  assieme al cognato. La famiglia Dragonetti è storicamente famiglia di camorra. Imparentata con i Giuliano di Forcella, è organica al clan Mazzarella. Una famiglia normale?

Ospite di Altrove era stato, in quel periodo, un ragazzo dell’agro aversano, arrestato per spaccio di droga. Con la chiusura del centro di Telese era stato affidato alla comunità Sant’Elena di Casapesenna. Come raccontato da Fanpage il 13 settembre dello scorso anno , nonostante il divieto espresso, utilizzava il telefonino e scriveva su Facebook, mandando messaggi ad amici e a chissà chi altro: «Buona nott, puzzat e famm. Ti posso solo piscare in testa»; «La morte arriva quando arriva, mi basta solo morire libero». Qualche tempo dopo , ormai maggiorenne, è stato nuovamente arrestato.

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