C'è qualcosa di orgiastico nel rituale che ogni anno si ripete, da quattordici anni a questa parte, negli spettacoli che hanno come protagonisti centinaia di studenti delle scuole napoletane, dal centro alla periferia. Un piccolo miracolo teatrale e pedagogico che fa di "Arrevuoto" una perla nel panorama culturale e sociale partenopeo, e che la città sempre distratta dai suoi problemi dovrebbe tenere più in conto di come fa, stargli più vicino, custodendo quest'iniziativa come una delle cose importanti che esistono a Partenope.
"Arrevuoto" è ormai un rito che, a maggior ragione nelle occasioni in cui si è svolto nel teatro San Ferdinando – la sala che fu di Eduardo e parte integrante dell'offerta complessiva del Teatro Stabile di Napoli – mette ogni volta in scena tutta la forza, l'irruenza, persino le sbavature, dell'essere giovani e forti, non ancora omologati al conformismo culturale dilagante, né schiantati dalla sconfitta dell'essere adulti. Un Carnevale che, come tutti i momenti carnascialeschi, si ripete ogni anno con lo stesso schema, ma in modalità sempre diverse.
Merito, innanzitutto, dei ragazzi in scena, poi di chi questo progetto l'ha pensato, Roberta Carlotto, chi lo dirige artisticamente e si occupa di ragionare ogni annualità su testi e temi, Maurizio Braucci, dei registi-guide dei laboratori e poi dello spettacolo, Alessandra Asuni, Annalisa D’Amato, Christian Giroso, Nicola Laieta, Sergio Longobardi, Emanuele Valenti e Gianni Vastarella. Da non dimenticare, infine, l'apporto musicale al progetto, sotto il coordinamento di Maurizio Capone ed Antonella Monetti, che guidano un'orchestra di talentuosi giovani, protagonisti di una speciale tenzone con quelli sul palcoscenico. Mancano un po' colpevolmente a quest'elenco le maestranze e la produzione del teatro, gli altri collaboratori del progetto, il tessuto associativo che gli sta attorno, perché "Arrevuoto" è un progetto collettivo, plurale, dove ciascuno ha un ruolo fondamentale. Spiace solo che manchi la possibilità di portare il pubblico a Scampia, in quell'Auditorium che spesso e volentieri ha fatto da casa naturale della rappresentazione finale.
Quest'anno il testo a cui ci si è ispirati (che andrà in scena un'ultima volta stasera) è stato "Tutti contro tutti" di Arthur Adamov, un dramma del 1953 pieno di ironia sul tema dei rifugiati e dell’altro come specchio di noi stessi. Ovviamente il riferimento all'attualità stringente dei migranti e del loro dramma è immediato, anche se sulle tavole di un palcoscenico, nell'indissolubile e quasi sacro rapporto che si instaura a teatro tra i corpi degli spettatori e degli attori, questo riferimento assume i connotati ben più ampi di un'acuta riflessione sul tema o di un pur necessario ragionamento sull'epoca che stiamo vivendo e sulle sue derive. Perché nella sala del teatro San Ferdinando, stipata fino all'ultimo posto disponibile (sono un frequentatore abbastanza abituale di quel teatro e non mi pare che in genere ci sia quasi mai né così tanto pubblico, né sia così giovane), i ragazzi diventano sin dalle prime scene essi stessi dei migranti, dei rifugiati su un barcone alla deriva, che rifuggono le ingiustizie degli adulti e di un mondo che li vorrebbe destinati solo al consumismo e – laddove non si riesca nemmeno in quello – a puntare il mirino della propria frustrazione verso l'altro, il diverso, il migrante.
E in un giorno come quello di ieri, in cui i media ci hanno riferito dell'ennesimo tragico affondamento in mare, al largo della Tunisia, di oltre 70 vite umane, quei giovani sul palco (insieme italiani, rom, migranti, di seconda generazione: in una parola, italiani) sono come tutti coloro che solcano i mari e navigano sui barconi dei naufraghi del nostro presente, alla ricerca di un approdo e di una terra che li faccia sentire accolti e non rifiutati. Chissà se l'Italia, per loro e per tutti gli altri, sarà mai questa terra.