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Uccisi dalla camorra, ignorati dallo Stato: la lotta per le vittime innocenti inizia a Casale

Sono state contate almeno mille vittime innocenti delle mafie in tutta Italia. Tanti sono caduti in agguati e imboscate in Terra di Lavoro, lì dove i Casalesi per anni hanno avuto più potere dello Stato. Le famiglie di molte di queste persone non hanno mai avuto il risarcimento assegnato per legge a chi è caduto per mano malavitosa. Schiacciati dalla mano criminale, dimenticati nell’omertà: questi morti sono dimenticati anche dalle istituzioni italiane.
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Omicidio di camorra dei primi anni 2000
Omicidio di camorra dei primi anni 2000

La Poisonville di Terra di Lavoro è lastricata da un migliaio di morti, raccolto rosso di quarant’anni di guerra civile combattuta in un quadrilatero abitato da trecentomila uomini, donne, bambini, equamente suddivisi tra l’una e l’altra barricata, tra quanti imbracciavano le armi e quanti neppure sapevano di essere sempre e comunque parte in causa del conflitto. Li ha accomunati, tutti, l’antica e perniciosa diffidenza verso lo Stato, che vedevano lontano e distratto: le guardie, convinte che la loro fosse fatica sprecata; i malandrini, che dispensavano favori e clientele; tutti gli altri, sicuri che così dovesse andare perché era sempre andata così e che assistevano rassegnati al travaso permanente dell’una altra categoria, finendo per diventare parte della stessa melassa.

È accaduto dalla fine degli anni Settanta fino ad almeno sette anni fa, quando fu arrestato l’ultimo latitante casalese, Michele Zagaria. E in quella mistura paludosa che ha abbracciato l’intero agro aversano, tutto il litorale Domiziano ed è arrivata a lambire pure il capoluogo, pure la montagna del Matese, sono caduti i buoni, i cattivi e quanti non erano né buoni né cattivi ma, semplicemente, si erano trovati a passare per la stessa strada. Libera, sentenze alla mano, ha contato quasi mille vittime innocenti delle mafie in tutta Italia. Una stima parziale che non tiene conto dei casi non ancora chiusi o di quelli mai aperti perché, magari, nessun collaboratore di giustizia ha mai parlato di quell’omicidio o perché gli assassini sono morti e non si possono processare i cadaveri o perché qualche frammento di verità è stato scoperto dopo anni e anni, troppi per reggere a una verifica processuale.

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La morte di Adriano Della Corte è una di quelle destinate a rimanere giudiziariamente coperta dall’oblio. Fu ucciso a Castelvolturno il 15 luglio del 1984. Un delitto di camorra, nelle modalità e nel movente. Ma il destinatario delle pallottole non era lui. Adriano, 18 anni, aveva una sola colpa, se colpa si può chiamare: un’auto uguale a quella di Antonio Salzillo, il nipote di Antonio Bardellino, capo di Nuova Famiglia, poi ammazzato molti anni dopo. Adriano Della Corte è una vittima innocente ma non c’è sentenza alcuna che lo riconosca. E tardiva, per il ministero dell’Interno, è la domanda di riconoscimento dello status fatta dai suoi familiari superstiti, che è stata respinta perché sarebbe prescritta. Peccato che la sola mezza verità ricostruibile porta la data del 2018, quest’anno.

Ogni appiglio burocratico suona come una beffa, una cartuccia in più nel carniere della mai superata diffidenza di quei territori nei confronti di Roma. Arturo Della Corte, il fratello, da qualche giorno ha iniziato lo sciopero della fame per protestare contro il mancato accoglimento della domanda di risarcimento. Oggi, 18 dicembre, è a Casal di Principe, a Casa Don Diana (una delle strutture confiscate alla camorra e destinate a fini sociali) per partecipare alla conferenza stampa organizzata dal suo avvocato, Giovanni Zara, ex sindaco di Casapesenna sfiduciato per ordine del boss Michele Zagaria e minacciato di morte, una lunghissima militanza nelle associazioni antiracket. È Zara a denunciare il sempre più frequente rigetto delle istanze dei familiari delle vittime. Dinieghi che hanno le motivazioni più disparate: c’è chi ha un parente in carcere (quasi impossibile non averne in paesini di poche migliaia di abitanti e con altissimo indice di criminalità), chi ha presentato l’istanza troppo tardi, chi ha saputo solo dopo. “Si sta tradendo spirito e lettera della legge – dice l’avvocato – anche con forme di accanimento incomprensibili.

La storia di Genovese Pagliuca

Prendiamo il caso degli anzianissimi genitori di Genovese Pagliuca: quel ragazzo, incensurato, fu ucciso perché si era permesso di cercare di salvare la fidanzata che era stata sequestrata dall’amante di Francesco Bidognetti (uno dei capi del cartello dei Casalesi, ndr.) Angela Barra, che si era invaghita di lei. Nella motivazione c’è scritto proprio così, che si era attivato per liberarla. Genovese Pagliuca faceva il garzone di un macellaio, viveva a Teverola, dove la Barra aveva una gelateria.

Era l’unica gelateria del paese. Ebbene, per macchiarne la reputazione hanno scritto che una volta era stato visto fuori a quella gelateria, nemmeno Teverola fosse grande come Roma o New York e si potesse andare altrove. Ebbene, il Tribunale ha dato ragione ai genitori di Genovese Pagliuca ma il ministero dell’Interno ha impugnato la sentenza. Non so quando si vedrà la fine di questa storia iniziata venticinque anni fa. Se mai si vedrà".

Carabinieri arrestano affiliati ai Casalesi
Carabinieri arrestano affiliati ai Casalesi

Giovanni Zara non lo dice ma fa capire che la ragione vera del muro alzato a Roma sia soprattutto di natura economica. La cassa piange e così si cerca ogni pretesto per non riconoscere il vitalizio ai familiari (innocenti) di vittime innocenti. Aggiungendo alla beffa anche l’ignominia. Sono tanti, troppi, lo specchio della guerra civile strisciante combattuta al Sud e sopportata al Centro e al Nord, sostanzialmente tollerata fino alle stragi del ’92 in Sicilia, alla deriva stragista casalese del 2008. Specchio della cattiva coscienza italiana nel contrasto alle mafie.

Vale per gli eredi dei morti, vale anche chi ha subito danni di matrice estorsiva. Le pratiche vengono esaminare con una lentezza esasperante, e chi non ha più casa, negozio, fabbrica, non sa neppure se e quando avrà il ristoro garantito dalla legge. Tra i tanti c’è anche un artigiano Casertano, al quale oltre un anno fa hanno bruciato il capannone a Limatola. Ignorato dalle cronache per quelle strane alchimie giornalistiche inspiegabili anche per gli stessi giornalisti (il fatto successe di notte in provincia di Benevento ma la vittima è di Caserta), non ha trovato porte aperte né di qua né di là. Si sono ricordati di lui solo per intimargli lo smaltimento immediato di ciò che resta della sua fabbrica, poco importa se le fiamme abbiano ridotto sul lastrico lui, la moglie, i tre figli.

“Così si alimenta la sfiducia nello Stato – conclude l’avvocato Zara – si cancellano anni e anni di impegno contro la camorra. Mischiare grano e oglio è pericoloso, si fa solo confusione e si fa un passo indietro di dieci anni. Non è giusto e, di questi tempi, anche molto rischioso”.

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