Certi bambini. Storie di baby criminali che carcere e comunità sono riusciti solo a peggiorare
Era un anno fa, per l’esattezza il 7 settembre del 2017. Il ragazzo, prossimo a diventare maggiorenne, era stato arrestato pochi mesi prima, per la seconda volta. E per la seconda volta era finito in comunità. Per qualche tempo era stato ospite di “Oltre”, a Telese, Benevento. E aveva iniziato a convincersi che quella vita, quella del piccolo spacciatore, non era poi tanto bella. Voleva fare il pizzaiolo, la famiglia – gente modesta ma onestissima – lo appoggiava. Anche il fratello più grande, che vive e lavora al Nord, voleva dargli una mano. Lo avrebbe ospitato e gli avrebbe cercato un lavoro. Poi arrivò quell’altro, il nipote del boss napoletano (Salvatore Dragonetti, poi ucciso in un agguato), con le sue bizze e le sue resistenze a ogni programma educativo.
Poi arrivò la lamentela dei genitori, che chiedevano coccole e carezze per quel figlio finito nel quasi carcere della coop sociale e nessuna rieducazione, nonostante l’arresto per rapina aggravata. Poi arrivò la strana sospensione della convenzione tra “Oltre” e il Centro per la giustizia minorile di Napoli. E i due ragazzi furono mandati altrove: il parente del boss in una comunità del Napoletano, l’altro ragazzo a Casapesenna, nella comunità Sant’Elena. Il 7 settembre del 2017 è ancora là, nel paese del capo dei Casalesi. In teoria gli dovrebbero essere preclusi i contatti con l’esterno non autorizzati dal magistrato. E non potrebbe usare telefonino e connessione internet. E invece. E invece scrive, pubblica foto, manda messaggi a qualcuno: «Buona notte, puzzat ‘e famme. Ti posso solo piscare in testa (sic)». Un amico gli risponde e lo invita a non fare di nuovo il violento. Nei giorni successivi scrive ancora, e poi ancora. Prima e dopo la messa alla prova, anticamera della scarcerazione. E su Facebook cambia il suo stato, con uno slogan che è la preoccupante avvisaglia di quanto potrebbe ancora accadergli: «La morte arriva quando arriva, mi basta solo morire libero».
Il ragazzo torna a casa, viene nuovamente arrestato. Questa volta è maggiorenne. È ancora in comunità, il trattamento è però affidato (ma solo di giorno), all’unico centro del ministero della Giustizia in provincia di Caserta, l’ex carcere minorile “Angiulli”. Non è più andato al Nord, del lavoro non ha più parlato. Qualcuno avrebbe dovuto vigilare sulla sua condotta in comunità. E accorgersi delle scritte postate nel cuore della notte. E avrebbe dovuto proseguire il trattamento iniziato a Telese. E avrebbe dovuto segnalarne i comportamenti irregolari. E invece. Invece niente.
Di storie uguali a quelle del ragazzo ce ne sono a centinaia. La cronaca racconta con cadenza settimanale di droga e telefonini nelle celle delle carceri minorili, droga e telefonini che girano anche nelle comunità. Non in tutte, ma in quelle considerate meno severe e più accoglienti. Ed è a questo lassismo, a questa irresponsabilità, che si sono riferiti i magistrati Antonello Ardituro e Francesco Cananzi (relatori, assieme a Paola Balducci, del documento sull’emergenza minorile in Campania presentato dal plenum del Csm riunitosi a Napoli) denunciando la mano morbida dell’intero comparto: le leggi, che vietano l’arresto dei minori anche per reati gravi; i controlli e la vigilanza; la tendenza (anche dei magistrati) a un generoso perdono anche in mancanza di un effettivo programma di reinserimento; l’accondiscendenza di taluni assistenti sociali nei confronti delle richieste delle famiglie.
A sedici, diciassette anni, hanno detto, non sono più bambini e non è possibile trattare come tali ragazzi che spesso hanno commesso fatti molto gravi. E che ancora più gravi – come le stese e gli omicidi – ne commettono quando tornano in libertà, ormai definitivamente indottrinati dalle logiche di camorra: «Se vuoi rispetto devi portare rispetto», scriveva sempre il ragazzo nelle sue notti a Casapesenna.
La macchina non funziona e si frantuma perché, in realtà, pochi sono i centri (carceri o comunità) in cui il trattamento viene effettuato con continuità ed efficacia. Prendiamo gli operatori, per esempio. Salvo alcune eccezioni esemplari, sono selezionati dai responsabili amministrativi delle cooperative, che spesso e volentieri non hanno alcuna formazione socio-assistenziale: sono ragionieri, commercialisti, avvocati, artigiani. Lavorano anche dodici ore al giorno per non più di ottocento euro al mese. «Siamo una sorta di bidello, di inserviente, di cameriere. Dobbiamo – racconta un giovane psicologo che ha lavorato a lungo in varie comunità delle province di Caserta e Benevento – badare al pranzo e alla cena, pulire le stanze. Con i ragazzi parliamo a tempo perso».
E così all’interno delle comunità si ricreano i rapporti di forza e di dominio che hanno lasciato all’esterno. Anche perché nelle coop che li ospitano ci sono anche i minori stranieri non accompagnati, i più deboli e ricattabili.
«Ne ho conosciuti tanti – racconta Alessandro Tebano, responsabile di alcuni progetti teatrali sia all’Angiulli sia in alcune coop – e in prevalenza sono ragazzi che vengono in Italia per lavorare. Soprattutto gli egiziani. A loro è dedicato lo spettacolo “Su al Sud” che abbiamo messo in scena con la Compagnia della Margherita assieme ai ragazzi della comunità Leo Amici di Valle di Maddaloni (si occupa di recupero dei tossicodipendenti, ndr.)». Bravi ragazzi che in alcuni contesti soccombono o scappano. O si adeguano, imparando dai “giudiziari” le regole del gioco sporco. Soprattutto a spacciare droga. E si torma al punto di partenza: chi controlla? Chi vigila? Chi ispeziona?
(2- continua. La precedente puntata)