Si allunga dai capannoni dell'Irpinia fino alla periferia orientale di Napoli, passa attraverso la Terra dei Fuochi e si stende fino a Bagnoli, nell'ex area industriale. È lo spettro dei veleni che stanno fagocitando migliaia di vite, anche giovanissime, in Campania. Bambini, ventenni, adolescenti, uccisi da patologie del sistema respiratorio, del sistema endocrino, della faringe. Vite che si spengono nei letti di ospedale, all'ombra di un paravento bianco, ma non per questo meno vittime. Vittime non della malattia, ma della pistola fumante di politiche dolose e illeciti criminali. Sono le vittime dei disastri ambientali – il plurale è tristemente d'obbligo – in Campania. È il caso degli ex operai di Isochimica di Avellino, l'azienda che commissionò negli anni ottanta la rimozione dell'amianto da 3mila carrozze dei treni delle Ferrovie dello Stato italiane.
Lo grattavano via dai vagoni a mani nude, senza tute, senza protezioni e poi lo sotterravano in una fossa nel deposito. Sono rimasti in 300: hanno lavorato per anni senza protezioni in mezzo a migliaia di tonnellate di amianto. Oggi il 90% degli ex dipendenti dell'Isochimica ha malattie polmonari. Mentre è in corso il procedimento che vede imputato il titolare dell'impianto Elio Graziano. Sono morti che camminano, condannati alla malattia. E oltre il danno, devono patire la proverbiale beffa: solo 9 sono riusciti ad andare in pensione. "È qui che avveniva la mattanza, dicono alle telecamere di Fanpage.it, indicando quello che 30 anni fa era il loro luogo di lavoro. Non ci sono altre parole per definire l'esposizione consapevole e di centinaia di lavoratori a un agente cancerogeno come l'amianto. La mattanza non è solo quella che ha straziato le loro vite, ma la strage senza fine delle generazioni cresciute sulla tomba che hanno scavato con palate d'amianto e della quale oggi – loro – si sentono il peso.
Non è diverso il caso, venuto alla luce, pochi giorni fa, dell'illecito smaltimento di rifiuti tossici avvenuto in via delle Brecce, nella periferia orientale di Napoli, dove la Kuwait Petroleum smaltiva "acque oleose reflue" in alcuni serbatoi degli impianti napoletani deputati invece alla ricezione di prodotti energetici. Parliamo di circa 91 milioni di litri di "acque oleose reflue" stoccati nei depositi della società. La mancata adozione di un adeguato piano di smaltimento di rifiuti pericolosi è costato alla società un sequestro pari a 239.723.305,00 di euro corrispondente al guadagno indiretto di cui ha beneficiato la Kuwait per la mancata attuazione di un piano corretto di smaltimento di rifiuti pericolosi. Il profitto è alla base della condotta illecita della dirigenza di una azienda multimilionaria, non che differisce, in questo dalle piccole fabbriche che operano in regime di evasione fiscale nel Napoletano, smaltendo gli scarti industriali sotto un cavalcavia. La prima forse finanzierà in parte un programma di bonifica, mentre da qualche parte, dietro i muri di un altro capannone, una nuova mattanza è in atto.