Ogni anno, di questi tempi, si succedono le celebrazioni per ricordare Giancarlo Siani, il giornalista ucciso dalla camorra per il suo lavoro di corrispondente de Il Mattino da Torre Annunziata. Quel 23 settembre 1985 Giancarlo uscì di casa per andare al concerto di Vasco Rossi a Napoli, salì a bordo della sua Mehari, dove fu sorpreso dai sicari che lo freddarono al posto guida. A distanza di 34 anni, esattamente come è accaduto a Giuseppe Falcone, Paolo Borsellino e i tanti – troppi – eroi nazionali vittime innocenti delle mafie (giudici, cronisti o semplici cittadini) Siani è stato seppellito da metri e metri di retorica, la stessa che ancora oggi oblia un serio discorso sulle vere ragioni, sulle incrostazioni sociali, economiche, politiche, criminali e mediatiche che hanno consentito nel nostro Paese l'avverarsi di tragedie simili.
Giancarlo Siani morì perché lasciato solo
La verità è che 34 anni dopo la morte di Giancarlo Siani abbiamo i premi, le commemorazioni, le fondazioni, gli aneddoti, le sentenze, i film, i romanzi, le lettere degli studenti e siamo arrivati – nella tipica italica maniera – alla definizione di un "santino" totale, contemporaneamente simbolo del giornalismo d'inchiesta che fu, dell'antimafia che fu, della gioventù che purtroppo ha potuto vivere solo in parte. Molto poco. E invece, come è stato ampiamente documentato dai più seri lavori sul suo conto – Giancarlo Siani fu abbandonato a se stesso, lasciato solo nel suo lavoro e per questo fu ammazzato. Ha ragione suo fratello Paolo, che nei giorni scorso su Repubblica ha ricordato Giancarlo nel giorno in cui avrebbe compiuto 60 anni per quello che suo malgrado è rimasto per sempre, a causa di quella morte precoce, e cioè un "giovane, sorridente, allegro, un precario dell'informazione, un abusivo".
Precario come i giornalisti d'oggi
Perché Giancarlo Siani era questo, un abusivo, un precario. Come mirabilmente ha scritto in un romanzo meraviglioso di qualche anno fa, Antonio Franchini ne (appunto) "L'abusivo". Cioè viveva ante litteram la condizione della maggior parte dei giovani che oggi intendono intraprendere il mestiere di giornalista. Basterebbe farsi un giro nelle redazioni locali delle più accreditate testate nazionali per scoprire quanto guadagna a pezzo un cronista oggi, quanto costa un'intera redazione di giovani e meno giovani che "fanno i giornali" ogni giorno. Della redazione distaccata di Castellammare di Stabia del giornale che fu di Siani oggi non c'è nemmeno l'ombra, a stento c'è ancora quella napoletana. Immaginatevi, dunque, la libertà oggi di un giovane cronista che voglia raccontare le storie che raccontava lui, che voglia seguire con attenzione quel genere di inchiesta. Altro che "ragazzo normale" – come lo ha definito l'ottimo Lorenzo Marone in un suo romanzo di qualche anno fa – ci vorrebbe per affrontare tutto ciò. Forse nemmeno un supereroe ce la farebbe a denunciare la camorra o qualsiasi altra mafia con la forza che fu di Giancarlo Siani nel sistema attuale dei media.
E non perché le mafie si siano indebolite o abbiano smesso di comandare nel nostro sistema economico e sociale, ma solo perché dei giornali e del giornalismo d'inchiesta – tranne alcune eccezioni – non restano altro che le ceneri.