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Le stragi di Trentola Ducenta e Secondigliano erano tragedie evitabili?

A sessanta giorni quasi compiuti dalla strage di Secondigliano un agente penitenziario impugna la pistola a Trentola Ducenta e stermina un’intera famiglia. Nello stesso giorno, dopo due mesi di coma muore il vigile Vincenzo Cinque, ferito dal cecchino in via Detta Napoli a Capodimonte. Nove vittime per due stragi. Che non potevano essere evitate.
A cura di Angela Marino
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Il 15 maggio scorso nel primo pomeriggio si è diffusa la notizia di una terribile sparatoria per futili motivi in cui sono rimaste coinvolte 8 persone, ferite 5, morte 4. Dalla sua finestra del piccolo appartamento in via Detta Napoli a Capodimonte, ai bordi della periferia di Secondigliano, Giulio Murolo sparava alla cognata, al fratello e ai passanti innocenti, la cui unica colpa era aver imboccato la tranquilla strada di periferia nel momento sbagliato. Il momento, per l’infermiere 48enne, di uccidere. Quasi esattamente 60 giorni dopo (saranno trascorsi due mesi il prossimo mercoledì). Accadono due fatti e – per una sinistra coincidenza –  accadono lo stesso giorno. Muore Vincenzo Cinque, il vigile colpito alla gola dai proiettili del cecchino e piombato in coma a poche ore dalla strage mentre non troppi chilometri più lontano, nell’hinterland di Caserta, a Trentola Ducenta, un altro uomo impugna una pistola contro i vicini. Sono caduti uno dopo l’altro sotto i colpi di quella che potrebbe essere l’arma di ordinanza del killer che, di mestiere, fa l’agente penitenziario. Un lavoro duro, alienante. Eppure un poliziotto dovrebbe essere, per formazione e consuetudine, più consapevole  della responsabilità di custodire un’arma. Nondimeno, il cinquantenne L. P. ha rivolto la pistola contro 4 persone disarmate, eliminandole una a una, come birilli con una palla da bowling.

Si fa presto a parlare di raptus, a dare la colpa al caldo torrido che annebbia la mente. È facile scivolare sulla retorica quando il sangue scorre dietro lo schermo piatto della tv, nei pixel della foto condivisa senza stare troppo a pensarci sulla timeline di Facebook, secondo le nuove ritualità antropologiche dei social network. Ancora più facile farne materiale per le chiacchiere sull’autobus o al bar. Che cominciano con una affettata incredulità per finire sempre col grido alla forca. Una pena esemplare per l’assassino, già spersonalizzato dalla narrazione della cronaca, ridotto a spauracchio delle fobie sociali di chi crede che possa esistere un salvagente politico, giuridico, psichiatrico, dal male che appare sempre astratto, lontano. Si rimane atterriti se e quando quel male è “umano, troppo umano”, come in questi casi, se abita alla porta accanto e ci guarda alla finestra di fronte. L’unica arma allora resta quella della curiosità morbosa per cui si spulciano ossessivamente le pagine, sempre quelle di Facebook, di quelli che sono diventati i protagonisti di un reality show, alla ossessiva ricerca dell’ultimo status che preconizzi gli eventi. È la stessa curiosità macabra con la quale si resta a fissare un incidente in autostrada, perché è “altro” da noi. Così si esorcizza la follia, così si convive con il male quando è brutale, disinteressato, paurosamente lontano dalle logiche economiche dei fatti criminali. Semplicemente ineluttabile.

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