Tra qualche mese scadrà il quinquennio di guida di Vincenzo De Luca alla presidenza della Regione Campania in un clima di forti incertezze e ambiguità politiche. Una sola evidenza è già da ora desumibile: il governatore uscente riproporrà la sua candidatura, quale che sia l’arco delle forze politiche che concorreranno a suo nome. Una convinzione, questa, abbastanza diffusa e che nasce dalle ragioni che ne hanno determinato, nella precedente tornata elettorale, la vittoria nella regione.
In primo luogo il nostro eroe esprimeva la radicata convinzione che il Partito Democratico costituisse oramai una mera scatola vuota, all’interno della quale fosse possibile declinare qualunque antitesi. Qualche esempio: potevano, sotto la medesima bandiera politica, coesistere sostenitori dell’accoglienza dei migranti insieme a fieri oppositori dei barconi, tuonando contro l’incremento dei crimini causata dai clandestini; ci si poteva dividere tra un modello di PD emiliano, favorevole al regionalismo differenziato, e un modello di neo-borbonismo secondo il quale il meridione era sistematicamente “rapinato” dal centralismo settentrionale. E su tutto ciò De Luca non si è risparmiato nei suoi settimanali soliloqui televisivi, in nome di un pragmatico post-ideologismo, per il quale il familismo nella cooptazione politica valeva solo per i suoi avversari e non per i propri rampolli. Il tutto condito da altre due caratteristiche che i politologi hanno parzialmente trascurato. Il presidente ricorre ad un uso della lingua italiana rispettosa della consecutio temporum e dei congiuntivi secondo modalità oratorie proprie del patrimonio avvocatesco meridionale di qualche decennio addietro, come se questa attitudine costituisca, di per sé, uno strumento di supremazia politica. Ancora: il modello di contrapposizione Nord-Sud viene riproposto, almeno in teoria, tra Napoli e Resto della Regione; Napoli aveva esercitato, sosteneva De Luca, un ruolo di dominante soffocamento sulle aree interne. Peccato, però, che tutto ciò si sia tradotto in una calcolata “salernizzazione” dei gangli di potere.
Trasfigurazioni, tutte queste, della realtà, gravi, ma non tanto come i due peccati principali di cui l’amministrazione del presidente si è macchiata in questo quinquennio: l’assoluta incapacità di comprendere le tendenze dell’economia campana e la continua proposizione dell’immagine che risolve i problemi, quali che essi siano.
La Campania, piaccia o no, è da oltre sette anni in recessione, dopo un declino del suo modello di industrializzazione iniziato negli anni Novanta. La crisi del 2007-08 ha rimodellato le gerarchie tra le regioni europee posizionando la regione nel terzo gruppo, quello a minor crescita e/o resilienza, in diretta competizione con tutte le zone arretrate europee, specie quelle dell’Est, le quali, tuttavia, si caratterizzano, nel medesimo periodo, per un elevato tasso di sviluppo. Lungi da noi addossare al nostro presidente responsabilità di cui vanno colpevolizzate le politiche economiche europee e nazionali; tuttavia è un dato che la regione ha parzialmente raggiunto i livelli occupazionali pre-crisi e che lo scoraggiamento porta ad una riduzione delle persone in cerca di lavoro. Una governance paziente ed umile dovrebbe porsi il problema di come intervenire nel settore dell’edilizia, dei gradi di libertà per le politiche di sostegno all’emarginazione sociale e alla povertà, specie nelle aree di periferia e per il rafforzamento della qualità dei servizi pubblici. Giova avere presente, come frequentemente ci ricordano Banca d’Italia e Svimez, che la loro qualità è “significativamente inferiore” per tutti i comparti: servizio elettrico, servizio idrico, servizi all’infanzia, indicatori di esito/processo degli ospedali campani (ad esempio per interventi di by-pass aortocoronarico, per valvuplastica e femore il rischio relativo è doppio rispetto alla media italiana).
Non pare possibile, anzi è quasi provocatorio, che quotidianamente il messaggio che gli assessori della regione, la cui autonomia di spesa dal presidente è unanimemente considerata pari a zero, inondino i telegiornali ricordandoci un nuovo stanziamento deciso per start-up del settore dell’ICT, le tecnologie dell'informazione e della comunicazione, che misure risibili quali Garanzia Giovani stia creando migliaia di opportunità di inserimenti professionali, che il settore dei trasporti pubblici regionali vive e vivrà una fase di radicale ammodernamento.
Le dichiarazioni sono tutte fallaci. Da decenni, e qui De Luca non è da meno dei suoi predecessori, la Regione Campania investe milioni di euro in quello che si potrebbe chiamare il “modello di agenzia”. Si presume, a completo torto, che uno dei problemi dell’occupazione campana sia l’incontro tra domanda e offerta di lavoro o il potenziamento della formazione per l’inserimento professionale. Ma il modello non funziona per la semplice ragione che la domanda di lavoro è quasi nulla e quella che c’è è precaria pure nelle academy hi-tech, o per qualunque altra attività dalla raffinata terminologia anglosassone. La Regione dovrebbe sapere, ma forse lo sa, che due terzi dei laureati in facoltà specialistiche campane cerca lavoro direttamente fuori dalla regione, non illudendosi che le istituzioni locali siano in grado di provvedere, nemmeno in minima parte, al loro futuro.
Ma non è con il mercato del lavoro che tocchiamo il fondo, quanto con il disastro dei trasporti pubblici regionali. Partiamo dal Rapporto Pendolaria di Legambiente per il 2018. Dal 2011 gli utilizzatori dei trasporti pubblici sono calati in Campania di 158mila unità (il 34% in meno), le tariffe sono aumentate del 48,4% e i tagli ai servizi diminuiti dell’8,1%.
Il volto del disastro è, indubbiamente, costituito da EAV, la Cumana e la Circumvesuviana tanto per intenderci, e dai suoi ineffabili organismi dirigenti. Sembrerebbe che essi prendano a modello il memorabile bluff della partita a poker sul treno nel film “La stangata” di Paul Newman: minore il punto, maggiore il rilancio. Nel nostro caso: più la Cumana va male, più si promettono nuovi treni, nuovi interventi e maggiore tutela dei viaggiatori, secondo un modello tipico di chi ha assimilato le peggiori convenzioni attuali della politica.
Ma c’è di peggio, e siamo quasi a Le Carrè: “il cliente misterioso”. L’EAV, che pare non abbia consapevolezza (sic) “delle disfunzioni del servizio o delle idee per migliorarlo”, cerca clienti misteriosi che segnalino e suggeriscano silenti possibili miglioramenti del servizio. Retribuzione gratificante: abbonamento gratuito, ritardi inclusi, per l’anno successivo.
L’atteggiamento di EAV è emblematico e paradigmatico della gestione dell’economia campana da parte del Governatore: contraddicendo quanto osservava un famoso economista britannico, secondo il quale in economia “la natura non fa salti” si mira, almeno nelle affermazioni, allo champagne incuranti dell’assenza delle lenticchie: si esalta il settore informatico e le tecnologie avanzate mentre l’edilizia e la manifattura muoiono, formazione, la domanda di lavoro latita e i giovani laureati emigrano. Ovviamente con un’occhiata di riguardo al “politically correct”: si presenta un’applicazione smart antiviolenza sulle donne, dimenticando che la Cumana è del tutto priva di rete wi-fi.
Se un bluff e un azzardo sono ben fatti nel poker spesso si vince; in politica e nelle circostanze elettorali prossime ci si augura che ciò non debba accadere.