Di quella mattina resta impresso il ricordo del cielo grigio gonfio di pioggia, della folla muta all’esterno della chiesa di San Nicola, dei fotografi in attesa di uno scatto utile, della conferenza stampa improvvisata da Ferdinando Imposimato, giudice, deputato comunista e componente della commissione antimafia. Era l’ultimo sabato prima del silenzio elettorale, l’Italia tornava al voto dopo appena due anni, il Parlamento travolto dalla marea nera di Tangentopoli. Casal di Principe si avviava a perdere il suo parlamentare più illustre, Alfonso Martucci, famoso avvocato penalista difensore di tutti i capi del clan dei Casalesi, finito invece nelle carte di un’indagine di camorra. Quasi gridò, Imposimato, la sua denuncia: “Qui sparano, qui ammazzano addirittura un prete, e ci sono duecento persone che devono essere arrestate. È tutto pronto, ma quando?”.
Era il 19 marzo 1994, un quarto di secolo fa, un altro tempo e un altro mondo. Era il silenzio a comandare a Casal di Principe e in tutto l’agro aversano. Il silenzio dell’omertà e della paura, unico contraltare al rumore degli spari – tanti, troppi – che attraversava le strade e le piazze lasciando sangue e morti. Tanti, troppi. Don Peppe Diana aveva rotto quel silenzio due anni e mezzo prima, quando un proiettile vagante aveva ucciso un giovane muratore, Angelo Riccardo, testimone di Geova. E aveva chiamato la camorra per nome e cognome, invitando alla resistenza civile e alla denuncia, accusando gli assassini e la politica collusa e corrotta. E per tutto quel tempo, fino a un’ora dopo l’alba della mattina in cui morì, si era messo a capo della Chiesa rinnovata, della Chiesa che rialzava la testa. Parroco giovane, nato e cresciuto nella sua Casal di Principe, aveva trasformato in motto collettivo quello degli scout: estote parati, siate pronti. Per questo, e non solo per questo, don Peppe doveva morire. Non perché fosse un pericolo immediato per quel clan che mai aveva subito la repressione vera dello Stato, ma perché un po’ alla volta, con la sola arma della parola, poteva cambiare la coscienza di quei ragazzi che lo seguivano nei campo scout, nelle gite fuori porta, nella catechesi della testimonianza e dell’apertura ai più umili. Era l’uomo giusto da scarificare alle logiche interne di camorra, il simbolo da abbattere, l’agnello sacrificale che la famiglia De Falco offrì allo Stato perché si liberasse della famiglia Schiavone. Non avendo la forza di vincere la guerra mafiosa con quelli che furono i vecchi alleati, Nunzio De Falco dalla Spagna ordinò l’omicidio di quel pericoloso sacerdote, sicuro che la colpa sarebbe ricaduta sui rivali. Non funzionò. Non funzionò neppure la calunnia, diffusa ad arte dallo stesso De Falco, che all’assassino prescelto, Giuseppe Quadrano, per superarne le resistenze, raccontò che don Peppe era uomo degli Schiavone, che li aveva aiutati, che aveva nascosto le loro armi in sagrestia. Mentì perché pure suo fratello Mario, vigile urbano, voleva bene a quel giovane prete. E non si vergognò di piangere disperato ai funerali. Un movente posticcio, che inutilmente la difesa di De Falco tentò di spacciare per verità durante il successivo processo. Quello e altro ancora, montagne di fango.
Se la camorra voleva uccidere il prete, l’uomo, la parola, la speranza, ebbene quella mattina fallì miseramente il suo obiettivo. Ci aveva provato fino alla fine, depistando ad arte indagini e ricordi. Ma fallì. E ha fallito perché quella mattina gli uomini migliori di Casal di Principe non provarono solo dolore ma, soprattutto, vergogna. Lo scrisse qualche mese dopo Renato Natale, sindaco in quei giorni e anche oggi, nel volume curato da Goffredo Fofi e pubblicato in occasione dell’anniversario del manifesto “Per amore del mio popolo non tacerò” di don Diana e dei parroci dell’intera foranìa di Casale: “Sabato 19 marzo, alle ore 7,40, sono nella chiesa di San Nicola, davanti al corpo di don Peppino. Insieme alla rabbia, al dolore, alla paura (sì certo, paura) ho provato vergogna, profonda vergogna” per la deriva della sua città, capace di “uccidere i suoi uomini migliori e di farlo nel modo più sacrilego, in chiesa, prima della messa, nella figura di un prete”. Vergogna che quel giorno gli impedì di andare a salutare e abbracciare la mamma del sacerdote, e di cui ha parlato ancora l’altro giorno, salutando i dodicimila scout arrivati da tutt’Italia per ricordare don Peppe che non hanno mai conosciuto, ma diventato il loro simbolo così come il loro motto oggi sono le sue parole.
Anche oggi il cielo è grigio e gonfio di pioggia e ci si prepara di nuovo ad andare al voto, nella Casal di Principe che per la prima volta ha avuto un sindaco durato per l’intera durata del mandato. Renato Natale fu sfiduciato a novembre, seguirono anni di consiliature-lampo e di ripetuti scioglimenti per infiltrazioni camorristiche. Un anno e mezzo dopo l’omicidio arrivò il ciclone giudiziario di Spartacus, quello che Imposimato aveva preannunciato davanti alle spoglie del sacerdote ucciso nella sua chiesa. Poi le condanne all’ergastolo: per Nunzio De Falco e per il rivale Francesco Schiavone, i cui figli hanno fatto strada (criminale) in comoda discesa ma sono durati poco, perché non è più quel tempo e l’omertà è passata di moda. Le strade e le piazze non sono più buie e silenziose, le lucine a led segnano i passaggi pedonali e nelle piazze che servirono ai boss per ostentare il loro potere mafioso (la piazza del Mercato e piazza Villa, quella dell’affronto del padre di Schiavone a Roberto Saviano e quella del club Napoli dove i capi clan organizzavano i raid assassini) c’è il wifi libero, moderno contrappasso alla cultura del silenzio. Per l’eterogenesi dei fini, don Peppe è più vivo di prima e continua a parlare ai suoi ragazzi scout: attraverso gli scritti, le lettere, i documenti, e attraverso le mille associazioni a lui intitolate. Delle vecchie calunnie è rimasto il ricordo fastidioso, che ogni tanto riaffiora nelle parole di chi ancora oggi tenta di insinuare il dubbio. Perché se c’è una cosa che sopravvive all’omertà e alla voglia di normalità, testimoniata dalle piccole cose della vita quotidiana (case senza muri di cemento armato e senza telecamere a vista, bar dove siedono comodamente anche ragazze e giovani donne) è l’atavica diffidenza verso chi si affida allo Stato con la denuncia, la testimonianza, la pretesa della coerenza tra parole e azioni: in fondo, dicono a bassa voce, don Peppe, facendo suo il dolore di un popolo oppresso e silenzioso, se l’era andata a cercare.
Casal di Principe è su un crinale. Oggi sa che la normalità è possibile ma qualcuno, che prova a rialzare la testa, è convinto che il tempo possa essere cancellato. E che prima o poi si possano rimettere “le barche a mare”, a pesca di denaro (pubblico e privato), di consenso, dei fasti del recente passato. Dai social arrivano segnali ambigui e inquietanti: come l’endorsement della cognata di Francesco Schiavone (in carcere al 41 bis da quasi vent’anni) e zia di Nicola Schiavone (figlio del capo clan, condannato all’ergastolo, da qualche mese collaboratore di giustizia) a un candidato sindaco. Segnali di una guerra non ancora finita. La camorra che fu è acciaccata ma non ancora sconfitta.