«E po' se faccio ‘e corna, nun è pe cattiveria, è che ce l'aggio a morte cu chi sfrutta ‘a miseria».
Scio' Live – 1984
Non faccio per dire ma erano davvero altri tempi, respiravamo un'altra aria, eravamo ragazzi a Napoli e le nostre speranze superavano tutto, anche l'evidenza dei fatti.
Palamaggiò, Cava dei Tirreni, Stadio San Paolo, Palapartenope. Tutto.
Nel vicolo, che poi sono più di uno e portano fino in via Foria ero cresciuto all'ombra di gente come Marittone, buono come il pane, uno di quelli che Pino Daniele e Rosario Jermano li aveva conosciuti da ragazzi, fra i vicoli dei Tribunali, il Diaz, la scuola di ragioneria che anche Pino Daniele aveva frequentato. Marittone aveva sempre – penso l'abbia ancora – ma sempre, una fotografia nel portafogli e un aneddoto pronto in testa.
Ma io davvero non ci posso ancora credere.
Penso che Pino Daniele sia il cantante la cui "morte artistica" ho esorcizzato di più. Per me non esisteva altro dopo il 1997, anno d'uscita di "Dimmi cosa succede sulla terra". Dopo quello proprio il nulla per me. Roba da ortodossi, sia chiaro. Mi dava fisicamente fastidio l'idea che potesse rivisitare (io dicevo esagerando "devastare") i suoi classici. Sull'ultimo Pino sono sempre stato critico, come ogni fan del vecchio corso. Però lo adoravo, esattamente come un fan adora un mito: l'ultimo concerto che sono andato a vedere è stato il suo "Nero a metà" con la band storica, i "Napoli Centrale", a Fuorigrotta. È poco giornalistico adorare un artista: appanna il giudizio. Mi consola il fatto che non ho mai dovuto scrivere di musica su un giornale. Fino a ora.
E la mente ritorna a qualche anno fa, ai vicoli, ai pellegrinaggi con Mariano, il mio compagno di classe alle superiori: noi, futuri periti chimici di una città dalle mille alchimie andavamo nei luoghi di Pino con in mano la sua biografia, scritta da Mimmo Liguoro, spero l'editore Tullio Pironti la ristampi a breve.
– Lo vedi? È nato qui!
– E qui è successo il fatto delle mattonelle sconnesse che suonavano, ‘a musica cinese a casa delle zie.
Cercare di imitare le sue canzoni con la chitarra ma senza aver studiato musica e senza un tutorial su Youtube che manco esisteva, non esisteva niente, camminare lungo via San Sebastiano, la strada degli strumenti musicali a Napoli e guardare una chitarra Paradis Avalon esposta al centro di una vetrina:
– E come si accorda, dietro? Ma… m'a facite pruvà?
– Guagliù, jatevenne!
E ancora più giù nel tempo, nei primi anni Novanta, prima che sulla città passasse veloce il vento di Tangentopoli: "Un uomo in blues": lui che era reduce dai primi problemi cardiaci che poi, cazzo, non ci credo ancora, oltre vent'anni dopo l'avrebbero ucciso, tornava a cantare e suonare. Bello, capelli lunghi ricci e brizzolati era il punto di riferimento per chi detestava l'ondata neomelodica in arrivo. E noi dalle finestre con l'orizzonte grigio di corso Malta, Istituto tecnico industriale statale "Enrico Fermi" di Napoli cantavamo "Gente Distratta" E quando scoprivamo che in un'altra parte d'Italia qualcuno ci definiva terroni e aizzava gente a puro scopo elettorale urlavamo con gusto che "Questa Lega è una vergogna" (‘O Scarrafone).
Ci passavamo le cassette registrate da noi, gli "Special Pino Daniele" sulle Tdk 90 e sulle BASF al cromo. Poi arrivò il tempo dei compact disc e guai ad averli "pezzotti"
– Non esiste, io voglio quello originale, dentro ci stanno i testi e le foto
Quando morì Massimo Troisi, era il 1994, andammo poco dopo al grande concerto che lui aveva organizzato allo stadio San Paolo con Eros Ramazzotti e Jovanotti. Eravamo lì per Pino e aspettavamo un ricordo dell'amico come lui tradito da un cuore troppo fragile. «…Volevo cantarla con Massimo, mi hanno detto che era già qui con voi…»: così disse mentre intonava "Quando". E sotto di lui noi, angeli in cerca di un sorriso, che ci muovevamo a ritmo, ipnotizzati.
La stessa cosa a Cava dei Tirreni, la vera arena del Pino anni Novanta: lì il suo live più bello e musicalmente maturo, "E sona mo'". Lì anche i concerti con Pat Metheny, con Eric Clapton.
Incredibile, davvero incredibile quanto Pino Daniele abbia dato a Napoli, pur restando a distanza di sicurezza da Napoli; lui faceva intendere che era per cautela e per naturale diffidenza verso chi – e sono tanti, qui – pensa sempre di essere il più furbo. Li definì nella sua biografia i "magnager". A un certo punto si "innamorò" dell'Antonio Bassolino sindaco e del carico di cambiamento che portava, «faciteme passa', c'aggia parla' cu Bassolino, faciteme passa'…» (‘Canto do' mar' da ‘Dimmi cosa succede sulla terra'). Poi negli anni a venire non ho capito niente più del suo rapporto con la politica.
Chi ha analizzato i testi di Pino Daniele a partire da quel "Napule è" canzone di un diciottenne diventata subito manifesto di una condizione di vita, insomma diventata ben oltre che una canzone, si è reso conto dell'impatto fortissimo della sua poetica sia sui suoi colleghi napoletani e non che sulla produzione in altri campi: cinema, televisione, poesia, fotografia, letteratura. Lo stereotipo della tazzulella di caffé gli è stato – come al solito – appiccicato da altri, lui invece era quasi ossessionato dalla necessità di non restare artisticamente uguale a quella "cartolina", di non diventare un sepolcro imbiancato della musica, come il «Napoli nun'ha da cagnà» del Funiculì Funiculà di Massimo Troisi. Per Pino sarebbe stato anche facile campare sui primi 15-20 tra album studio e live. Non l'ha fatto.
«Grazie guagliù! Mo' facciamo un blues e ce ne andiamo!»
Era questa la frase che, dopo gli innumerevoli bis, Pino Daniele usava dire per congedarsi da noi, il suo pubblico, mai sazio.
Io davvero non me ne faccio ancora una ragione. E mentre ascolto «Sotto ‘o sole véne / e se ne va / e saglie sulamente a voglia ‘e jastemmà» penso che il vuoto enorme di quest'assenza lo sentiremo ancor più negli anni a venire.
Quel sound. È Napoli. È la Napoli di chi è andato via per lavoro, di chi ha rinnegato se stesso e si è venduto. Di chi nonostante tutto resta e fa quello che deve fare (a trent'anni nun può capì /'e canzone te fanno fesso…) e ascolta quelle parole come guardarsi allo specchio: non puoi mentire, non puoi dire una bugia stai tu e tu. Puoi dire palle sul futuro ma non puoi mentire al passato.
Tutto questo era Pino Daniele per me.
«E sona mo' / pure pe' mme…»