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Fortuna Loffredo: news sull'omicidio di Caivano

Omicidio Fortuna Loffredo, perché Raimondo Caputo potrebbe non essere l’assassino

A 5 anni esatti dalla morte di Fortuna Loffredo, la bimba di sei anni scaraventata dall’ottavo piano al Parco Verde di Caivano, nuovi dubbi emergono sulla sentenza che ha condannato definitivamente Raimondo Caputo all’ergastolo. Dall’assenza di DNA sul corpo della bimba, alla controversa testimonianza della figliastra D. fino a quel capello mai identificato trovato sul corpo di Fortuna. E se l’assassino, come sospetta il padre di Chicca, fosse ancora libero?
A cura di Angela Marino
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A cinque anni dalla morte di Fortuna Loffredo c'è chi, in quel quadrato di case a nord di Napoli, è convinto che Raimondo Caputo non abbia commesso quell'omicidio. Pensare a Caputo come un innocente vittima, o anche solo dirlo, fa venire i crampi allo stomaco; eppure, ci sono persone da quelle parti, tra cui lo stesso papà della vittima, che credono che l'assassino sia ancora libero e non pensano affatto che l'ergastolo li metta al riparo da nuove brutalità. Vi spiego perché Raimondo Caputo potrebbe non essere l'assassino di Fortuna.

Fortuna Loffredo: ricostruzione

Partiamo dalla ricostruzione che il processo ci ha consegnato. Il 24 giugno 2014, Raimondo Caputo ha ucciso Fortuna Loffredo, scaraventandola dal terrazzo dell’ottavo piano del rione Parco verde di Caivano, dopo un tentativo di abuso sessuale al quale la bambina si è ribellata e, se cerchiamo un movente, proprio a causa di questa ribellione. Ora torniamo ai fatti di cinque anni fa. Sono le 11 e 25 di mattina, Mimma Guardato fa ritorno dal centro centro riabilitativo di Lusciano (Caserta) dove la piccola Chicca, sei anni, va per curare i disturbi del comportamento (disturbi che verranno ricondotti agli abusi, ndr). Sotto al palazzo di otto piani del rione, madre e figlia incontrano l’ex convivente di Mimma e padre del terzo dei suoi figli, Claudio Luongo, con il quale spesso la donna litiga proprio per l’affido del piccolo A., il fratellino di Fortuna. Non quel giorno, sembra, perché da lì tutti e tre insieme vanno a comprare una pizzetta al piccolo. Tutto va bene.

La morte di Fortuna Loffredo

Alle 11 e tre quarti Salvatore Mucci, inquilino del quarto piano, dà l’allarme dopo aver scoperto Fortuna agonizzante sull’asfalto. Alle 11 e 50 una pattuglia dei carabinieri di Caivano scorta all’ospedale di Frattamaggiore l’auto condotta da Mucci in cui c’è la piccola Loffredo. Alle 13 e 50 viene constatato il decesso della bimba per i traumi della caduta da una grande altezza. Tra questi fatti e la ricostruzione della sentenza di ergastolo a carico di Caputo, giunta 4 anni dopo, si affastellano non pochi dubbi. L’autopsia sul corpo di Chicca (firmata dai dottori Balzano, Saggese e Fusco) rileva uno ‘sconquasso anatomico' determinato da ‘abusi ripetuti nel tempo per un periodo di almeno un anno’. Non rileva, però, abusi sessuali databili al giorno della morte. Fortuna, quindi, quel giorno non è stata violentata, ma questo lo sapevamo, perché secondo la versione dei fatti consegnataci dal tribunale, è stata uccisa per essersi ribellata a una tentativo di abuso, non per averlo subito.

Sul corpo di Fortuna non c'è DNA di Caputo

Un tentativo di violenza, però, soprattutto nel caldo di un giorno di inizio estate, dovrebbe lasciare traccia, anche minima, sui vestiti o sul corpo della vittima. Qui spunta la prima incongruenza: dall’esame del corpo e dei vestiti della piccola condotto dal Racis di Roma, sono state rilevate solo tracce biologiche appartenenti alla vittima. Niente saliva, liquido seminale o sudore riconducibili al Caputo, che dunque avrebbe tentato di violentarla, lottando con lei, senza però lasciare tracce organiche e segni di aggressione. Il perito, infatti, sottolinea l’assenza di alterazioni traumatiche indicative di una colluttazione come unghiate, lividi, morsi. Riassumendo, sul corpo di Fortuna non c'è DNA di Caputo.

Gli indizi a carico di Raimondo Caputo

Cosa c’è, allora, contro ‘Titò'? Le dichiarazioni di alcuni testimoni che lo collocano al settimo piano e non nel cortile, come sostiene lui, smontando il suo alibi e la testimonianza chiave della figlia di Marianna Fabozzi, D., 9 anni, che racconta di averlo visto insieme a Chicca pochi istanti prima che la piccola precipitasse nel vuoto. D., avrebbe assistito al tentativo di abuso da parte di Titò che ‘le si buttava addosso', mentre lei ‘tirava calci', con le mutandine abbassate (Chicca è atterrata con le mutandine al loro posto, ndr). Questa, dunque, la testimonianza alle fondamenta dell'accusa sulla cui ‘bontà’ la sentenza spende non poche parole, essendo stata resa da una testimone cosiddetta ‘debole’, in ragione dell’età. Per capire in che contesto questa testimonianza sia maturata, anzi sia stata ‘elicitata’ (sollecitata, ndr) come di dice in sentenza, è necessario fare qualche passo indietro.

La prova ‘regina'

Al tempo dell’omicidio, nell'estate del 2014, D. abitava con la nonna materna Angela, insieme ad alcuni zii, nell’appartamento al settimo piano della palazzina del Parco Verde, dove Chicca è stata vista per l’ultima volta in vita. Sua madre, Marianna Fabozzi, invece, almeno formalmente condivideva con Caputo il basso al pian terreno a via Santa Barbara, a Caivano, alcuni chilometri più in là, dove vivevano anche le due figlie minori, A. e R. quest’ultima, 3 anni, figlia naturale del Caputo. Pochi mesi prima il Tribunale aveva deciso che le tre bambine dovevano essere affidate alla nonna Angela perché, da quello stesso appartamento al settimo piano al ‘Parco Verde', un anno prima, il fratellino di 4 anni, Antonio, era precipitato nel vuoto. Quando Chicca è morta, dunque, il Tribunale dei Minori aveva già disposto un provvedimento che poneva in serio dubbio le capacità genitoriali di Marianna, ma niente diceva di presunti abusi sulle piccole. Quelli verranno scoperti sono dopo la morte di Fortuna, quasi per caso, ma ci arriveremo tra poco.

La supertestimone

È settembre 2015, più di un anno dopo l’omicidio di Chicca, quando le piccole vengono affidate a una comunità per minori. Le intercettazioni ambientali al ‘Parco verde', infatti, avevano individuato attorno alla piccola D., dimostratasi da subito in possesso d'informazioni importanti sull’omicidio di Chicca, un contesto soggiogato dalla nonna materna matrona, manipolatorio e perturbante, che l'ha violentata moralmente e adultizzata. Nondimeno, in casa famiglia, D. soffre la lontananza dalla nonna e dalla mamma ed esprime più volte il desiderio di non essere separata da loro. Accudite dalle operatrici della casa famiglia, invece, le sorelline minori mostrano i primi indicatori di malessere, venendo sistematicamente redarguite dalla sorella maggiore affinché non dicano nulla che faccia sembrare la loro famiglia meno che perfetta, nulla insomma, che possa giustificare la definitiva separazione dalla mamma e dalla nonna.

Gli abusi sessuali

In quanto maggiore e direttamente coinvolta come testimone nell’omicidio di Chicca, D. viene chiamata dalla famiglia (come testimoniano le intercettazioni ambientali in casa) al segreto su tutto: sulle botte che prende dallo zio, sulla dimensione domestica violenta e adultizzante e, elemento più importante, su dove era Chicca quella mattina e su cosa fece. Nondimeno, anche grazie ai controlli medici sulle bambine, gli abusi sessuali perpetrati da Caputo su tutte e due le figlie minori di Marianna, emergono in maniera chiara e piano piano anche D. arriva a liberarsi delle sue paure dicendo ciò che è successo. Pur affermando di non sapere niente degli abusi delle sorelline minori, D. ammette che Caputo la molestava ‘ogni giorno' e che la mattina della morte di Chicca lo aveva visto allontanarsi dalla casa al settimo piano della nonna, Angela dove Chicca era andata per giocare con loro, insieme a lui. Da lì  li aveva seguiti per vedere se suo ‘padre’ violentava anche Chicca.

Cosa porta all'arresto di Caputo

Il 29 aprile 2016 si arriva così, soprattutto grazie alla testimonianza della piccola D. all' incriminazione di Raimondo Caputo (già in carcere per gli accertati abusi sulle le sorelline) per l’omicidio di Fortuna Loffredo. Sul suo diario ‘segreto’ in casa famiglia un mese prima, dopo il colloquio con la pm, Claudia Maone, D. scriveva: Sono contenta di aver detto la verità, lui deve pagare, non voglio andare con un’altra famiglia. Ecco. Pur essendo D., in possesso di un buon quoziente intellettivo in grado di consentirle di discriminare tra i fatti accaduti e quelli che bisognava raccontare – si legge negli atti – questa sua capacità era messa alla prova da un contesto che la obbligava alla mistificazione dei fatti, gettandole addosso la responsabilità che un diverso comportamento avrebbe comportato la disgregazione della famiglia.

I dubbi di Pietro Loffredo

È legittimo domandarsi se D., testimone oculare (anche se la bimba riferirà di non aver assistito al momento in cui Titò gettava Chicca di sotto, ndr) sottoposta alla duplice pressione della famiglia, che la chiamava alla ‘lealtà' dell'omertà e quelle della Procura, che le chiedeva risposte, non abbia confezionato una versione che proteggesse sua madre e inchiodasse l'orco, l'odioso e odiato Titò, quello che si giocava a carte le bambine coi vecchi del palazzo (testimonianza resa dal suo compagno di cella, ndr) per cui nessuno avrebbe speso una parola. Ma queste sono solo le domande di chi guarda i fatti fuori dall'aula di tribunale, domande che lo stesso Pietro Loffredo, papà di Fortuna, si pone da anni e per cui ha scelto insieme ai suoi avvocati Angelo e Sergio Pisani di ritirarsi dalla costituzione di parte civile contro ‘Titò' (rinunciando al risarcimento), ‘perché i colpevoli sono altri' e lui sa ‘chi sono'.

La tesi della pedopornografia

Se volessimo dare ascolto a Pietro, padre distrutto che ancora non crede di aver avuto giustizia, dovremmo farci molte domande e chiederci di chi era quel capello non identificato trovato sul corpo della piccola Fortuna, quel capello ‘deciduo', cioè privo di bulbo, da cui mai è stato estratto il DNA perché senza bulbo non si può. Ma Pietro è un pregiudicato che per vivere si affida a piccoli lavori e nessuno, nonostante la perspicacia di certe osservazioni, gli dà credito.  Scarso credito, in questi anni, è stato dato anche alla tesi del circuito di pedopornografia nel parco, nonostante alcuni soggetti vicini alla stessa Fortuna siano poi stati incriminati per reati legati allo sfruttamento della prostituzione. Nessuna importanza invece è stata data ad alcuni eventi, dalla morte imprevista e improvvisa del pm a capo della prima indagine, Federico Bisceglia, in un incidente stradale, alle pallottole inviate in Procura per scoraggiare le indagini su Fortuna.

Quel capello mai identificato

A cinque anni dalla morte di Chicca, Marianna Fabozzi è stata raggiunta da imputazione coatta per la morte di suo figlio Antonio Giglio, ciò significa che a breve, settembre forse, andrà a giudizio per l'omicidio del figlio. Caputo, invece, ci andrà per favoreggiamento, cioè per aver taciuto ciò che sapeva sulla morte del piccolo, coprendo Marianna, a detta sua, perché lei tacesse degli abusi sulle figlie. In un ecosistema dove la delinquenza impone il silenzio e dove il reciproco ricatto lo blinda, la verità è un pegno da bruciare sull'altare della sopravvivenza.

La scarpetta di Fortuna

Un po' come la scarpetta destra di Fortuna, che Rachele Di Domenico, anziana signora dell'ottavo piano, ha raccolto e nascosto, quella mattina di cinque anni fa, mentre Fortuna giaceva all'obitorio. Lei era la nonna acquisita di Fortuna, madre di quel Claudio Luongo con cui Mimma aveva avuto uno dei suoi tre figli e custode, insieme ad altri, delle chiavi del terrazzo dell'ottavo piano. Forse anche lei, come D., aveva paura che qualcuno a cui voleva bene potesse farsi male.

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Giornalista dal 2012, scrittrice. Per Fanpage.it mi occupo di cronaca nera nazionale. Ho lavorato al Corriere del Mezzogiorno e in alcuni quotidiani online occupandomi sempre di cronaca. Nel 2014, per Round Robin editore ho scritto il libro reportage sulle ecomafie, ‘C’era una volta il re Fiamma’.
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