“Il Padrino”, scena prima. La ricordate? Ricordate il colloquio tra don Vito Corleone e il “beccamorto” Amerigo Bonasera? È tutto là, in quelle poche battute, il senso e l’origine della mafia: il consenso e la giustizia à la carte, le armi regolatrici dei conflitti ma solo come strumento estremo “perché noi – diceva don Vito – non siamo assassini”. Ed è ancora là la sua capacità di resistere alla repressione e di essere, oggi come ieri, alternativa allo Stato e alle sue leggi, eversiva, antica e moderna, duttile e liquida come l’acqua, con la stessa forma del suo contenitore. Non siamo assassini, non siamo mafiosi, dicono da decenni i capi dei cartelli camorristici della provincia campana. La famiglia Moccia di Afragola lo ripete almeno da metà degli anni Novanta, quando trattò – perdendo – per strappare l’equivalenza tra dissociazione e collaborazione con la giustizia, rivendicando una sorta di ruolo “politico” quale esimente per stragi e attentati, al pari dei brigatisti. E non è un caso che anche Francesco Schiavone, per lunghissimi anni capo dei Casalesi, durante i processi perché tutti ascoltassero, ha ripetuto quasi ossessivamente che lui non era un boss ma solo una vittima della politica, dei comunisti. In fondo, hanno sempre detto, nei loro paesi non si chiedeva il pizzo, non si spacciava, non si rubava, non si rapinava. E quando qualcuno disobbediva, veniva picchiato da sconosciuti, ucciso nelle campagne, fatto sparire in un pozzo. Qualche volta finiva in carcere, complice una soffiata molto dettagliata fatta arrivare a un poliziotto o a un carabiniere.
Ordine per ottenere il consenso, disciplina per consolidarlo, una strizzata d’occhio agli uomini dello Stato che alla fine “vince sempre”, come ha ricordato appena due giorni fa Antonio Iovine, altro capo casalese collaboratore di giustizia, invitando il suo vecchio compare Michele Zagaria a fare come lui e archiviare la stagione dei conflitti. Magari per modellarsi al nuovo contenitore. E poi la provocazione, il manifesto pubblicato ad Afragola, con tanto di timbro del servizio affissioni del Comune e firmato da Antonio Moccia.
Manifesto con il quale il figlio di Anna Mazza e Gennaro Moccia, figlio di mafiosi e lui stesso condannato, invita i commercianti a denunciare chi va a chiedere tangenti per i carcerati, a nome della sua famiglia o di altre. Soprattutto a nome suo, ha specificato.
Un segnale inquietante. In apparenza, un’autodifesa preventiva. In sostanza, un ammiccamento a chi appoggia la percorribilità della strada della dissociazione. Ma è soprattutto la rivendicazione della regola che fece nascere Nuova Famiglia in contrapposizione alla Nco cutoliana: mai chiedere il pizzo ai paesani. Perché, come ha raccontato Nicola Schiavone, il figlio di Francesco, collaboratore di giustizia, ai soldi per il clan devono pensarci gli imprenditori amici: “Gli altri devono volerci bene”. E se torna la regola, qualche altro sta pagando. E un grande affare è all’orizzonte.