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Terra dei fuochi, 30 anni sono troppi per avere giustizia ma almeno conosciamo la verità

Esattamente dopo trent’anni, dopo indagini abortite sul nascere e processi boicottati, dopo depistaggi e sottovalutazioni assai sospette, arriva la sentenza che in appello conferma: Cipriano Chianese è stato davvero il manager del disastro ambientale in Campania. Senza mai pentirsene, senza mai ammettere alcunché, conservando anzi la stessa protervia da salvatore della Patria ostentata durante le indagini preliminari, il processo di primo e di secondo grado, l’imminente lettura della sentenza.
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In principio era Ecologia 89, il nucleo primordiale delle ecomafie. Ed era Setri, ditta di trasporti specializzata nel trasferimento su gomma di scarti industriali. Crebbero insieme, l’una a vantaggio dell’altra, la camorra che spara e l’impresa che delinque. E diventarono un tutt’uno, la Setri ribattezzata con l’anagramma Resit, e i soci del mondo di sotto, fino a dominare il settore, avvelenare le terre, mungere centinaia di milioni di euro dalle casse pubbliche approfittando delle periodiche emergenze che spesso e volentieri provocavano in house.

In principio era il vertice del clan dei Casalesi, e cioè  Francesco Bidognetti, Francesco Schiavone, Antonio Iovine, Gaetano Cerci, con le sue parentele di malavita e le sue entrature nella P2 di Licio Gelli; e Cipriano Chianese, avvocato e tante altre cose ancora (industriale dei rottami ferrosi, professionista della legge, politico), con la sua dote di altolocate amicizie istituzionali, magistrati e investigatori di punta. Furono loro, braccia e cervello, a trasformare in oro, come raccontò il pentito napoletano Nunzio Perrella nel lontano 1992, la spazzatura di casa e i residui chimici delle industrie che nessuno sapeva come smaltire. Esattamente dopo trent’anni, dopo indagini abortite sul nascere e processi boicottati, dopo depistaggi e sottovalutazioni assai sospette, arriva la sentenza che in appello conferma: Cipriano Chianese è stato davvero il manager del disastro ambientale in Campania. Senza mai pentirsene, senza mai ammettere alcunché, conservando anzi la stessa protervia da salvatore della Patria ostentata durante le indagini preliminari, il processo di primo e di secondo grado, l’imminente lettura della sentenza.

La sentenza della IV Corte d'Assise d'Appello

Alle 16,09 del giorno di Sant’Antonio Abbate, il presidente della IV Corte di Assise di Appello di Napoli Roberto Vescia ha letto il dispositivo che ha confermato la condanna di Cipriano Chianese e Gaetano Cerci, 18 anni e 15 anni di reclusione, con un piccolo sconto di pena rispetto al primo grado (la posizione di Francesco Bidognetti, stralciata, è stata definita da tempo con la condanna). A sorpresa ha assolto con ampia formula Giulio Facchi, ex subcommissario per l’emergenza rifiuti, condannato a 5 anni e sei mesi in primo grado: il fatto non costituisce reato. In altre parole, quando autorizzò gli sversamenti, non poteva fare altrimenti.  Prescritte le posizioni dei fratelli Roma, trasportatori coinvolti in tante altre inchieste sulla stessa materia, e non poteva essere altrimenti visto il tempo trascorso dai fatti contestati. Perché non di giustizia ormai si può parlare ma di doverosa ricostruzione storica di fatti con elevatissima valenza penale. Fatti che fotografano l’inquinamento dei terreni di una vasta area compresa tra Parete, Giugliano e Villaricca, e delle coscienze di quanti con quei traffici si sono arricchiti. Nella cinica indifferenza verso quanti, tanti, a causa dei veleni, sono morti.

Manca ancora l’ufficialità della Cassazione, ma la doppia sentenza di condanna per disastro ambientale a carico di Chianese e Cerci cristallizza un dato non più contestabile: fu il clan dei Casalesi, nelle sue varie articolazioni, a inventare, gestire, controllare il traffico e lo smaltimento dei rifiuti, urbani e industriali. Lo fu sin dal 1989, come raccontarono Perrella nel 1992 e il pentito casalese Dario De Simone nel 1996. Lo fu anche durante le indagini del processo Adelphi, che per la prima volta evidenziò i rapporti tra Chianese, Cerci, Licio Gelli, una cordata di massoni liguri e toscani, politici di medio e alto livello. Il resto è storia relativamente recente.

Cipriano Chianese, legittimato da decisioni dei tribunali e da rapporti mai sufficientemente approfonditi con uomini dei Servizi, ufficiali dell’Arma e magistrati (poi ingloriosamente usciti di scena) era diventato, negli anni Duemila, l’uomo della Provvidenza, l’unico in grado di mettere a disposizione dello Stato (e cioè del Commissariato di governo per l’emergenza rifiuti) i fossi necessari allo smaltimento dei rifiuti napoletani. Quelli delle cave Resit, appunto, cloche smisurate riempite ben oltre la capienza. Fino al 5 gennaio del 2006, giorno del suo arresto, quando l’operazione della Dda di Napoli (pm Alessandro Milita) scoperchiò la pentola delle collusioni istituzionali, portando all’incriminazione di Giulio Facchi. E al ruolo ambiguo di uomini dei servizi di sicurezza, più volte da questi denunciato.

Trent’anni, nonostante le condanne, sono troppi per credere di aver avuto giustizia. Ma almeno il punto fermo è stato messo e quei traffici, così come inventati da Chianese e Cerci, non sono più possibili. Bruciati loro, all’ergastolo Bidognetti, morto Gelli, pentito Gaetano Vassallo (competitor di Chianese e grande smaltitore di veleni nella stessa zona) ora l’affare dei rifiuti viaggia su altre strade: più raffinate e moderne, più ambigue e sottili ma meno impenetrabili di un tempo. Se la sentenza arriva a babbo morto, come si dice, almeno la storia ci aiuterà a capire prima e meglio dove tira il vento. E magari a impedire una nuova stagione di emergenze, almeno in Campania.

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Rosaria Capacchione, giornalista. Il suo lavoro di cronista giudiziaria e le inchieste sul clan dei Casalesi le sono costate minacce a causa delle quali è costretta a vivere sotto scorta. È stata senatrice della Repubblica e componente della Commissione parlamentare antimafia.
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