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Opinioni

Il binario che porta ai soldi: così i Casalesi sono arrivati al cuore dell’economia italiana

Come ha fatto Nicola Schiavone, ‘facilitatore’ ad arrivare tanto in alto? Storia dell’uomo d’oro di Rfi, la rete ferroviaria italiana finita nel mirino della magistratura napoletana per le infiltrazioni del clan dei Casalesi negli appalti da milioni di euro. Viene definito “importante faccendiere, un facilitatore, che si è speso negli anni nell’interesse della sua famiglia e di suo fratello, senza mai tralasciare di ripagare la mia famiglia che gli ha fornito le basi”.
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Per fare il pane servono solo acqua e farina. E lievito, naturalmente, che a sua volta è fatto di acqua e farina fermentata, acqua e farina che lasciate a dormire producono i batteri che gonfiano l’impasto e lo fanno soffice e saporito, per poi tornare a essere lievito madre. Che è praticamente eterno perché gli invisibili bacilli che lo compongono si riproducono con poco e in poco tempo, rinfrescati quel tanto che basta. Non ha vita sua ma vive di quella dell’infezione saprofita, una catena a ciclo continuo sopravvissuta per millenni a guerre e tempeste, a carestie e persecuzioni. Giuseppina Nappa, per tutti Mariapia, 59 anni, maestra elementare, madre dei sette figli di Francesco Schiavone-Sandokan che sposò quando aveva appena diciotto anni, è nata a Casal di Principe, paese di campagna, e sa come si fa il pane. Conosce, dunque, il valore del lievito madre.

E non può essere un caso, un banale espediente dialettico, una semplice metafora, se proprio a quello si riferisce per spiegare ai magistrati la natura dei rapporti tra colui che fu il capo dei Casalesi, da vent’anni al 41 bis, e Nicola Schiavone, lontanissimo parente del marito, imprenditore di successo, l’uomo d’oro di Rfi, la rete ferroviaria italiana.

Una frequentazione assidua, affetto e simpatia ma anche riconoscenza “dovuta al fatto che continua a usare il lievito madre preparato da mio marito”. E cioè, un iniziale investimento finanziario, risalente ai primi anni Ottanta (quando il clan, a quel tempo ancora dominato da Antonio Bardellino, decise che le imprese non dovessero essere gestite direttamente da chi aveva una storia criminale), che poi è cresciuto, si è frammentato, si è gonfiato e profumato, si è riamalgamato grazie ai batteri lasciati in coltura nel brodo giusto. Cioè a Roma, nelle stanze paludate dei ministeri e di Rfi, nel cuore dell’economia di Stato, dove “zio Nicola”, come lo chiama l’omonimo primogenito di Schiavone-Sandokan, condannato all’ergastolo e da nove mesi pentito, è pian piano diventato un facilitatore.

“Se dovessi offrirvi un esempio – ha raccontato nel corso del suo primo interrogatorio da collaboratore di giustizia, il 18 luglio dello scorso anno – per farvi comprendere di che tipo di personaggio stiamo parlando, potrei paragonarlo a Luigi Bisignani, ovvero a un importante faccendiere, un facilitatore, che si è speso negli anni nell’interesse della sua famiglia e di suo fratello, senza mai tralasciare di ripagare la mia famiglia che gli ha fornito le basi”.

Soldi, vacanze, parcelle per gli avvocati, regali (ventimila euro in contanti come dono per le sue nozze, oltre al trattamento di favore ricevuto a Villa Scipione, dove si tenne il ricevimento), ancora soldi. Né poco né troppo, ha commentato il giovane Nicola Schiavone, che però ha detto di ignorare che tipo di accordo avesse con il padre.

Francesco Schiavone "Sandokan"
Francesco Schiavone "Sandokan"

È questo il contesto in cui è nata l’inchiesta della Procura antimafia di Napoli (pm Graziella Arlomede e Antonello Ardituro) sulle infiltrazioni dei Casalesi in Rfi. Indagine disvelata due settimane fa da una serie di perquisizioni e di sequestri di materiale informatico, telefonini, fascicoli. Diciassette gli indagati, a vario titolo, per associazione camorristica, concorso esterno, corruzione, turbativa d’asta. C’è “zio Nicola” Schiavone, ovviamente; e ci sono il fratello Vincenzo e le rispettive mogli. Ma anche Massimo Iorani, romano, responsabile della Direzione centrale acquisti di Rfi, di Paolo Grassi, romano, dirigente della direzione produzione, di Giuseppe Russo, napoletano, responsabile dell’ufficio manutenzioni di Napoli. E la cognata di Giuseppina Nappa, Nicolina Coppola, che a dire della moglie del boss casalese, con i due imprenditori avrebbe avuto rapporti di amicizia e frequentazione ancor più stretti dei suoi. Secondo l’accusa, gli imprenditori (che hanno presentato domanda di Riesame avverso i sequestri, istanze che salvo rinunce dovrebbero essere discusse oggi), attraverso sistemi di fittizia intestazione, pare controllino di fatto un cartello di imprese che operano nel settore della costruzione e della manutenzione delle reti ferroviarie. Gli investigatori ritengono, infatti, che esista una rete corruttiva, di cui farebbero parte funzionari di Rfi, che manovrerebbe le procedure di gara in diversi distretti territoriali a vantaggio del cartello di imprese riconducibili alla camorra. Gli accessi dei magistrati antimafia, delegati ai carabinieri di Caserta, hanno riguardato le abitazioni e le sedi delle società Bcs e Imprefer in viale Gramsci e piazza dei Martiri, il salotto buono di Napoli; le case e gli uffici dei dirigenti di Rfi, a Roma e Napoli-Gianturco.

Ma come ha fatto il “facilitatore” Nicola Schiavone ad arrivare tanto in alto? Lui, modesto insegnante con diploma tecnico, poi lungamente assessore a Casal di Principe, finito nel processo Spartacus (lui assolto, il fratello condannato a una pena bassissima, sospesa) e prima ancora in quelli nati (e finiti con la prescrizione) dalle dichiarazioni di Pasquale Galasso e Luigi Magliulo, il boss afragolese uscito sconfitto dalla guerra con i Moccia? Come ha fatto, dicevamo, a evitare interdittive antimafia e indagini patrimoniali, pur essendo persona nota agli uffici investigativi, e a trasformarsi in un invisibile batterio della lievitazione? Una traccia la fornisce Nicola Schiavone jr., quando nel lungo interrogatorio del luglio scorso ha fatto un nome che fa precipitare il passato degli anni più bui della Campania, mai veramente passato, nel presente: Elio Della Corte. Falso avvocato ma con entrature importanti nei Palazzi di Giustizia della Campania e della Capitale, aggiustatore di processi (forse un millantatore, forse no), il suo nome è stato legato agli scandali del dopo-Galasso e all’inchiesta che, venticinque anni fa, travolse magistrati dei distretto di Napoli (Armando Cono Lancuba, Vito Masi, Ettore Maresca, Silvio Sacchi) e imprenditori legati al boss Antonio Malventi, l’alter ego di Carmine Alfieri, e al clan Schiavone. Si incontravano tutti a Positano, nelle villette di Parco dei Fiori, proprietà di camorra data in uso gratuito, per le vacanze, alle toghe amiche. Più di recente, tre anni fa, Della Corte era incappato in un’inchiesta della Procura di Firenze: aveva convinto numerosi imprenditori toscani ad assumerlo quale consulente per “facilitare” (pure lui) lavori e appalti, pagamenti e finanziamenti.

I magistrati toscani

Questo il ritratto che ne hanno fatto i magistrati toscani: “Esercita da anni l’attività di truffa e di millanteria quale suo stabile mestiere. Miscelando sapientemente contatti e conoscenze reali con altre artefatte o millantate, tende a fornire a vari imprenditori la percezione di una sua importante rete relazionale che utilizza per influire sull’assegnazione di appalti sia pubblici che privati”. In cambio di compensi milionari. Tutte millanterie, evidentemente, non erano. Il sospetto, su cui non si è mai adeguatamente indagato, è che in realtà Elio Della Corte facesse parte di una rete coperta, forse massonica, forse collegata ad apparati deviati dello Stato, in grado di influenzare davvero processi, sentenze, appalti.

E Nicola Schiavone? Qualcosa da lui l’ha imparato. Se non altro, la capacità criminale di fare tesoro delle altrui debolezze e usarle a suo vantaggio. Ed ecco, quindi, la corruzione al posto dell’intimidazione: torna Positano, con le vacanze all’hotel San Pietro a Massimo Iorani e signora; i gemelli di Cartier; le gite in barca; i pranzi e le cene; le cravatte e i foulard di Marinella. In cambio, ovviamente degli appalti aggiudicati da Rfi in tutta Italia, la cui mappa è per ora solo parzialmente ricostruita nelle carte dell’inchiesta. Così come la rete di società collegate ai fratelli Schiavone e tutte beneficiarie dei lavori appaltati da Reti ferroviarie Italiane. Operazioni da milioni di euro ogni volta, un capitale finanziario di tale imponenza da far scomparire la pur consistente mole di beni appartenuti alla famiglia di Schiavone-Sandokan e confiscati. In fondo, solo di pietre e bufale avevamo sin qui parlato.

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Rosaria Capacchione, giornalista. Il suo lavoro di cronista giudiziaria e le inchieste sul clan dei Casalesi le sono costate minacce a causa delle quali è costretta a vivere sotto scorta. È stata senatrice della Repubblica e componente della Commissione parlamentare antimafia.
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