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Bomba alla pizzeria Sorbillo di Napoli

Il Grande Hotel Napoli, la politica e la città ribelle

Una città è ciò che noi facciamo di essa. Mentre in queste ore si discute (poco e male) delle bombe di camorra davanti ai negozi di Napoli e provincia, con la retorica del decreto Salvini, quel che sta accadendo dovrebbe spingerci a guardare a fondo nel tessuto economico e sociale d’un contesto urbano in profonda trasformazione, con pezzi di città che cambiano e altri che vengono lasciati morire.
A cura di Michele Grimaldi
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Scoppiano bombe ad Afragola, ed altre avevano colpito il quartiere Secondigliano. Ma pare non importasse a nessuno, finché un ordigno non è esploso proprio dentro la cartolina, con un botto che ha momentaneamente svegliato tutti e in maniera assai violenta. L’attentato nel cuore di Napoli alla pizzeria simbolo – alla quale deve andare tutta la nostra solidarietà –  il centro storico affollato da turisti, nuovi esercizi commerciali, catene internazionali hanno fatto arrivare il ministro dell’Interno e della Paura, con l’ordinaria foto in divisa, le polemiche da social, le mobilitazioni civiche e civili, a dir la verità abbastanza tiepide. Perché le sveglie suonano, ma puoi anche cliccare su “posponi”, e continuare a dormire un altro po'. E questa pare sia stata proprio la scelta di Napoli, delle sue classi dirigenti e della sua opinione pubblica: dormire un altro po', fino alla prossima sveglia, fino alla prossima bomba.
Ma quel che è accaduto avrebbe dovuto spingerci, invece, a guardare più a fondo nel tessuto sociale ed economico di un contesto urbano in profonda trasformazione, con pezzi  di città che cambiano, altri che darwinianamente vengono lasciati morire.

D’altronde, direbbe Calvino, una città è ciò che noi facciamo di essa. E anche Napoli – eterna eccezione – è, in questo, eccezione a sé stessa. Perché al netto della propaganda (di centro, di destra e di sinistra), delle polemiche mainstream e della poesia a targhe alterne, non sfugge alla dinamica globale di turistizzazione delle città. Che mischia e si arrende, anzi promuove, l’economia del passato e la supremazia della rendita, la deregulation commerciale e la competizione spietata tra i quartieri, e in nome dei flussi – turistici e di denaro – produce la disneyzzazione dei centri storici, l’allontanamento dagli stessi dei ceti popolari, la segregazione spaziale e residenziale di intere zone. Non a caso l’idea che una città possa fare leva solo sull’economia del turismo nasconde delle contraddizioni evidenti e pericolose, raccontate bene dal manifesto fondativo della nascente rete SET – Sud Europa di fronte alla turistizzazione: la precarizzazione del diritto all’abitare, con fondi di investimento e panieri immobiliari pronti ad acquisire in maniera massiccia immobili da destinare ad un uso turistico; la trasformazione delle stesse attività commerciali in attività turistiche slegate dai bisogni della popolazione, ed il conseguente e complementare aumento generalizzato dei prezzi; la saturazione del trasporto pubblico locale, nel mentre si tagliano i servizi di base –  trasporto, servizi sociali, istruzione, lavoro – per favorire investimenti in quelle infrastrutture necessarie al flusso materiale e immateriale dei turisti. Vi è la definizione di un fenomeno di dipendenza tra l’economia locale ed il settore turistico, che non solo è un pericoloso principio di monocultura, ma anche l’affermarsi di un monopolio di settore nel quale una crescita non controllata è foriera di precarizzazione, stagionalità, spesso lavoro nero.

Basta fare un giro a piedi tra Piazza San Domenico e Piazza Bellini, per rendersi conto di quanto siano evidenti, da un punto di vista dei segni, delle insegne ma anche degli orari, gli odori, le voci, le dinamiche anche fisiche che esplicitano questo processo. Non a caso, In un’epoca nella quale i grandi soggetti della Gig economy, da Uber ad Amazon, si qualificano come l’elemento più fluido e predatorio della nuova economia, e determinano così gli assi di sviluppo di interi macro-territori e la forma stessa delle città, l’impatto della piattaforma Airbnb su Napoli è un esempio emblematico.

Nonostante non fornisca nessun dato pubblico per aiutare la comprensione sull'uso della loro piattaforma e il suo impatto sulle diverse città, grazie al lavoro di Inside Airbnb si possono ricavare molte informazioni essenziali per leggere quello che accade. Nella città del Lungomare Liberato, 6.161 annunci, e dunque il 94,3% degli appartamenti in affitto tramite la piattaforma, presentano un’elevata disponibilità, e cioè sono sul mercato oltre 60 giorni l’anno. In questo contesto, il 58,1 % degli annunci totali risultano essere annunci multipli, e dunque danno l’idea di proprietari che non vivono nell’immobile che propongono, violando così le norme sugli affitti a breve. Tra l’altro, quasi 4.000 offerte, e cioè oltre il 60% del totale, riguardano case o appartamenti interi. Da questi dati è facile intuire che non ci troviamo dinanzi a una economia di prossimità, ma alla trasformazione informale di interi quartieri in alberghi diffusi. Con l’aumento del valore immobiliare e l’espulsione dei residenti meno abbienti verso le periferie non riqualificate (a meno che non si pensi che un murale, da solo, possa passare dall’essere simbolo di resistenza a processo esaustivo di rigenerazione urbana): non a caso tra le grandi città che hanno segnato aumenti significativi dei canoni di locazione, Napoli è ai primi posti con il +9,3%.

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D’altra parte il valore per metro quadro di un immobile a Posillipo è di 4912,1 euro, quello del “turistizzato” quartiere di San Giuseppe cresce a 2954,1 nel mentre a Poggioreale scende a 1576,6: parallelamente – come riportato in una recente ricerca di Lelo, Monni e Tomassi – il tasso di occupazione nei quartieri occidentali (Posillipo, San Giuseppe, Chiaia, Vomero e Arenella) raggiunge valori intorno al 40-43%, ed è inferiore al 30% nelle periferie nord (tra cui Scampia e Secondigliano), est (in particolare Ponticelli e Barra) e ovest (Soccavo), oltre a Mercato e Pendino in centro. Anche in quanto a laureati, ad esempio, a Posillipo, Chiaia e Vomero ci sono dati superiori nove volte quelli di Scampia, San Giovanni a Teduccio e Miano (4,5%). Nel frattempo, nell’ultimo anno sono stati eseguiti circa 2.000 sfratti, con 17.000 persone che sono in graduatoria per casa popolare ma con le assegnazioni praticamente ferme dal 1998.

Insomma, una città la cui forma ed il cui sviluppo sono decise dalla rendita e dalle modalità di sviluppo economico che essa predilige, e nella quale la definizione di decoro come altrove passa da caratteristica dell’estetica architettonica a qualifica degli esseri umani, le disuguaglianze si allargano e il tessuto urbano si frammenta sotto il peso di nuovi muri ed eterne ingiustizie. Da questo punto di vista città come Barcellona o Parigi, o esperienze come la già citata Rete Set o il movimento Our revolution 901 negli Stati Uniti, segnalano prese di coscienza politica e conseguenti provvedimenti amministrativi atti a contrastare questa deriva.

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Nella capitale partenopea, tra un centrodestra entusiasta del decreto Salvini, che criminalizza la povertà e trova nel Daspo urbano lo strumento legislativo al servizio della segregazione residenziale, ed un Partito Democratico nel quale se si parla di lotta alla rendita si viene tacciati come vecchi arnesi del passato, dai fautori della città ribelle ci si sarebbe aspettato qualche atto di coraggio in più. Ci sono palazzi svuotati da residenti e divenuti alberghi diffusi, e non sempre dichiarati. Con i fitti ed il valore al metro quadro degli immobili che salgono, e salgono ancora. E lavori e contratti sempre più precari, al cospetto di flussi di denaro sempre più solidi: nelle tasche di chi può investire, controllare, in alcuni quartieri anche assicurare o negare sicurezza a seconda della convenienza.

I pastori, gli odori, e Pulcinella, ma dentro la crisi economica, quando il capitalismo mostra il suo volto predatorio e cinico, e le banche del sud sono le uniche lasciate fallire, la sola forza in grado di accumulare e gestire ingenti flussi di denaro, con celerità e spregiudicatezza, si chiama camorra. Che quando serve, prova a regolare il mercato a modo suo, proprio come uno Stato dentro uno Stato che non c'è. Dovremmo discuterne: prima che la prossima bomba ci desti di nuovo.

*Michele Grimaldi è autore del libro "La macchia urbana. La vittoria della disuguaglianza, la speranza dei commons (Aracne ed.)"

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