Non è la prima volta e non sarà l'ultima che qualcuno a Napoli contrabbanderà una verità a pagamento. Francesco De Gregori una volta cantò dei «martiri professionali»; prima della musica leggera arrivarono i racconti di Curzio Malaparte, i diari di Norman Lewis; Matilde Serao che ne descrisse il ventre, Elena Canino che invece narrò la "Napoli borghese". La (ri)costruzione a scopo sensazionalistico dei fatti della città è un elemento con il quale i giornalisti che operano da queste parti hanno da sempre avuto a che fare. Esistevano ed esistono i fixers: sono quelle figure che collaborano coi giornalisti che non sono del luogo e debbono realizzare un servizio. A Napoli (anche altrove) questa figura è diventata molto simile a quella dello sceneggiatore: il fixer non si limita a facilitare, ma propone persone, luoghi, azioni e ricostruzioni che nel migliore alterano la realtà falsificandola, nel tentativo di concentrare "il personaggio", "la situazione", "il racconto" in pochi minuti di video o nella penna dell'inviato, nel peggiore dei casi invece la inventano di sana pianta sotto compenso.
Quel che è accaduto nel rione Forcella, alla reporter Gaia Martignetti, merita una riflessione ulteriore. Protagonista è un ragazzino, in strada con un gruppo di suoi coetanei, non più di 13-14 anni a testa, nei momenti immediatamente successivi ad una ‘stesa' di camorra con tanto di ferimento di una donna che non c'entrava assolutamente nulla, colpevole solo di essere affacciata al balcone nel momento della scorribanda criminale. Il guaglione si avvicina alla videoreporter e le offre, semplicemente, la sua testimonianza in cambio di 20 euro. «Tu mi dai 20 euro e poi ti fai i milioni» le dice, facendo intendere che la sua verità testimoniale ha un valore economico più alto di due immagini registrate dopo i fatti. È vero, è assolutamente vero: il testimone vale di più di chi non ha visto nulla, nel ricostruire un fatto a video. «Se mi dai venti euro io faccio una settimana, tu fai un mese», insiste il ragazzino, incurante della presenza della polizia; c'è perfino un agente che cerca di dissuaderlo ‘mandandolo a dormire', ma il ragazzo ribatte: «Io vivo qui, non devo andare da nessuna parte». È lui ad avere il diritto di star lì. Non ‘le guardie', o i giornalisti che sicuramente non accedono ad alcuna verità se non aprono questo forziere a buon mercato.
Cosa sarebbe accaduto (oltre a compiere un grave abuso deontologico) se la reporter avesse accettato e pagato? Cosa avrebbe detto il ragazzino, quale realtà avrebbe descritto? Avrebbe davvero descritto una dinamica autentica? Si sarebbe inventato le cose, inquinando il pozzo di fatti? Avrebbe recitato una parte, magari con l'assistenza di chi era dietro la telecamera desideroso di massimizzare l'investimento? Sarebbe scappato con i soldi, un marameo e tanti saluti al giornalista fesso (questo è quanto ci piacerebbe credere). Quante volte è già accaduto, a Forcella e altrove che una realtà venisse ricostruita come la sceneggiatura di una puntata di Gomorra?
Nel 2004 una ragazzina di quell'età fu ammazzata proprio lì davanti, si trovava per caso sulla traiettoria di un conflitto a fuoco di camorra, si chiamava Annalisa Durante. Chissà se al guaglione dei 20 euro questa storia l'hanno mai raccontata.