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Opinioni

Per capire Pino Daniele dovete capire la sua lingua e la sua storia. Altrimenti è inutile

Lo show televisivo per ricordare Pino Daniele è risultato l’antitesi di tutto quello che il cantautore napoletano pensava della sua Napoli e della lingua usata per le sue canzoni in dialetto. Rendendo le canzoni scatole vuote, a partire dalla terribile pronuncia di alcuni testi per finire con la mancanza di atmosfera per altri, il risultato è stato uno spettacolo livellato verso il basso, un Festivalbar dello stereotipo che nulla aveva a che vedere col Pino che negli anni Ottanta squarciò il velo di conformismo sulla città e sul modo di cantarla.
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Anno 1980. Pino Daniele sul palco del teatro Massimo di Pescara si accinge a cantare ‘Alleria‘ («quant'e sufferto ‘o ssape sulo Dio»). Fa un preambolo per spiegare il pezzo quando all'improvviso sente chiaramente dal pubblico una voce che gli urla: «Impara a parlare!». «Comme? Ah…Nun serve ‘a parla', basta sape' suna'» replica Pino che arretra scuro in volto e canta la sua canzone. Ovviamente tutta in napoletano. Anche Massimo Troisi ebbe gli stessi problemi all'inizio della sua carriera: «"Non si capisce", urlavano sicuri /questo Troisi se ne resti al Sud! / Adesso lo capiscono i canguri / gli Indiani e i miliardari di Hollywood» scrisse Roberto Benigni, ricordando l'attore, morto prima del suo amico cantautore.

Lasciate stare dialetto, lingua, riconoscimenti, poesie, l'Unesco. Il napoletano è il napoletano. ‘O sole mio è scritta in napoletano. La conoscono i giapponesi e gli australiani. Vi basta?

Questo antefatto è importante per introdurre il ragionamento sul dispiacere. Il dispiacere di vedere questo sentimento (Pino era solito dire della sua musica: «è solo sentimento») svuotato del significato e diventare gorgheggio. Non nobilitiamolo: non è il grammelot di Dario Fo che da più semi linguistici partoriva nuovi suoni, parole, movimenti. Nella limpida notte da Festivalbar dello stadio San Paolo in Fuorigrotta, Napoli, si è sbigliettato ma non si è prodotto niente e niente è stato ricordato.

Il sentimento è rimasto nelle nostre memorie, nei dischi, nelle musicassette, nei vinili; Pino Daniele è rimasto nella casa delle zie, quella da ragazzo, quella con la ‘musica cinese‘ (chi conosce la sua vita sta di cosa io stia parlando.

Provo a spiegare il perché. Il napoletano delle canzoni di Pino Daniele non è solo il testo della canzone. È specchio – sociale, politico, culturale – della realtà di quel momento. È una storia. Si può cambiare parole alla storia? Certo che si può. Ma poi diventa tutta n'ata storia. Pensateci: il dialetto (lingua, dialetto, state calmi, non è una deminutio capitis) è stato l'ambasciatore vero di Napoli nel mondo. È arrivato prima di persone, foto, cartoline. Le parole di Napoli sono arrivate nelle orecchie degli americani e dei cinesi che la conoscevano senza conoscerla; così nel resto del mondo.

Schizzechea, Quanno chiove, Lazzari felici buttate così su un palco diventano macchiette. Schizzechea è il ritorno di un uomo a casa, trova tutto uguale e tutto cambiato, gli amici che si drogano («Peppe se fa, o ssaje ma che peccato…») gli altri che restano e aspettano una chiamata («Magari primma ‘e partì») e fuori, schizzechea. Cioè non piove, pioviggina. Ma è quella pioggia sottile o forse è il flusso dei pensieri o forse lacrime chi lo sa.

Il lazzaro felice, c' ‘o Volto Santo ‘mpietto e ‘a guerra dint' ‘e mmane: mani rotte di fatica, o forse hanno impugnato armi durante la Seconda Guerra Mondiale o forse sono mani che hanno conosciuto la violenza della vita miserabile e accattona del Dopoguerra. Il lazzaro felice, mi dicevano, poteva essere il papà di Pino che lavorò al porto. Per molti di noi, in effetti, ricorda una figura paterna, di quelle ch'e spalle sotto ‘e casce, con le spalle piegate al peso delle casse. Piene di frutta? Di sfravecatura, ovvero masserizie? Casse di sigarette di contrabbando? Di preoccupazioni? Quanto è magica ed evocativa la lingua di Pino Daniele. E dov'era tutto questo allo stadio San Paolo?

Io capisco che il mainstream, la tv, gioca per sottrazione di elementi in funzione di una costruzione narrativa scorrevole e agevole per il piccolo schermo (e il ragionamento spicciolo, ridotto al minimo in funzione dei lustrini). Ma dobbiamo per forza rassegnarci e appiattire tutto? Abbiamo tutti ragione, per citare Paolo Sorrentino?

Quanno chiove non è una canzone sulla pioggia, parla di una prostituta; la tazzulella ‘e cafè  non è la stessa tazzina di Pasquale Lojacono recitata da Eduardo De Filippo. Una era il paravento inconsapevole (ma nemmeno tanto) di un uomo che faticava a vedere e riversava nei fantasmi le proiezioni di una vita fatta di sottrazioni e rinunce, l'altra era la ribellione dai troppi caffè («nuje nce puzzammo ‘e famme, ‘o sanno tutte quante. e invece e c'aiutà c'abboffano e' cafè») che distoglievano dalla reale e drammatica situazione della Napoli di fine anni Settanta, inizio anni Ottanta.

Qualcuno può dire: ma tutte queste cose come le metti in uno show? È uno show, è tutto uno show. Ma non ho capito: questi ragionamenti un po' più articolati e complessi ce li dobbiamo tenere tutti per noi, in funzione di una foto su Instagram, di tre righe da mettere su Facebook?  La famosa ‘complessità di Napoli' che tutti invocano, quando c'è lo show di mezzo deve sparire?

Il personaggio di Pippo Chennedy interpretato da Corrado Guzzanti per una bellissima trasmissione satirica di Raitre molti anni fa (1997), ironizzava su Napoli storpiando il dialetto e infarcendolo di stereotipi. Un modo per tentare di farsi accettare dal pubblico cercando di assomigliare al peggio che vuole il pubblico.

Non era così, per Pino Daniele non è mai stato così: «Lasciami gridare solo un po' di melodia se capisci va bene o sinò te futte».
Se lo capisci, bene, altrimenti ti fotti: questo era il suo modo di stare al mondo. Qualcuno evidentemente deve esserselo dimenticato.

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Giornalista professionista, capo cronaca Napoli a Fanpage.it. Insegna Etica e deontologia del giornalismo alla LUMSA. Ha una newsletter dal titolo "Saluti da Napoli". È co-autore dei libri "Il Casalese" (Edizioni Cento Autori, 2011); "Novantadue" (Castelvecchi, 2012); "Le mani nella città" e "L'Invisibile" (Round Robin, 2013-2014). Ha vinto il Premio giornalistico Giancarlo Siani nel 2007 e i premi Paolo Giuntella e Marcello Torre nel 2012.
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