Era già successo una volta, diciotto anni prima. Stesso territorio, una ventina di chilometri più a nord, sulla Consortile di Pescopagano, ancora Castelvolturno ma quasi Mondragone. Era il 24 aprile del 1990, sera tardi, e la camorra sparò a raffica. Uccise cinque volte, ferì sette volte. Bianchi e neri, colpevoli e innocenti. Fu all’indomani di quella strage che fu siglato il patto con i trafficanti di droga che arrivavano dall’Africa (dalla Tanzania prima, dalla Nigeria poi): anche sullo spaccio si pagava la tangente, un tot all’anno. Il subappalto di un ramo d’azienda troppo rischioso e fastidioso per essere ancora gestito in house.
Per diciotto anni e quattro mesi era andata così. Poi, nel 2008, nell’annus horribilis della camorra Casalese che aveva abbracciato i metodi stragisti dei Corleonesi, Peppe Setola decise che quel patto andava ricontrattato. Voleva più soldi. Cocaina per sé e per i suoi. Voleva un milione di euro e un chilo di droga. Li chiese all’uomo sbagliato, uno che era sì nigeriano ma che niente aveva a che fare con i narcos. E per questo Setola, il killer che si fingeva cieco, quella sera era arrabbiato a morte con tutti gli africani. Tutti. Perché per lui erano tutti uguali, tutti la stessa cosa. Stava perseguendo con lucida determinazione il piano di rinascita del clan, decimato da arresti, ergastoli e confische. Stava ripristinando la regola: tangenti per pagare affiliati e famiglie, vendette per punire chi disubbidiva e denunciava le estorsioni, ordine pubblico per assicurarsi il consenso. Il bastone e la carota. E a Castelvolturno la carota era lo sterminio degli africani, i soli contro i quali ogni tanto qualcuno scendeva in piazza. Contro la camorra mai.
Quella sera, dieci anni fa, una decina di minuti dopo le 21, al centralino del 118 arrivò la richiesta di soccorsi per “feriti da arma da fuoco in località Ischitella”. Mezz’ora prima, a Baia Verde, era stato ferito a morte un piccolo pregiudicato che si voleva fosse un confidente di polizia e carabinieri, Antonio Celiento, gestore di sala giochi. Con l’adrenalina a mille, Setola e i suoi scapparono verso sud, verso la confinante provincia di Napoli. All’esterno della sartoria ‘Ob Ob Exotic Fashion', a quattrocento metri dalla torre di Giugliano, c’era ancora gente. I ragazzi africani avevano cenato insieme, l’unico pasto di una giornata di ramadan. Erano liberiani, togolesi, ghanesi. Non c’era neppure un nigeriano. Non c’era neppure uno spacciatore. Setola e i suoi passarono, dunque, e li videro: africani, giovani, disarmati. E pure se scappavano da un omicidio, abbandonarono ogni prudenza, scesero dalle auto e fecero fuoco, dentro e fuori della sartoria. Una sola telecamera ha ripreso un frammento del raid: si intravedono i lampi delle armi da fuoco, bagliori che ricordano quelli dei missili nella notte di Bagdad.
Li uccisero tutti, o almeno così credettero: Kwame Antwi Julius Francis, Affun Yeboa Eric, Christopher Adams, El Hadji Ababa, Samuel Kwako, Jeemes Alex.
Joseph Ayimbora, ghanese, si finse morto e si salvò. Fu lui a raccontare che gli assassini indossavano le pettorine della polizia. Joseph è morto sei anni fa per un aneurisma.
Setola, in quella serata di sangue e di esaltazione criminale, era convinto di aver conquistato l’intero territorio, di essere il re del terrore e l’unico in grado di “liberare” la Domiziana dagli africani. Nonostante l’impressionante volume di fuoco (furono repertati 125 bossoli, almeno sette le armi utilizzate: due kalašnikov, una pistola mitragliatrice, quattro calibro 9), un certo mainstream accreditò per più di un giorno la tesi bizzarra del regolamento di conti tra spacciatori africani. E invece era stata la camorra. All’indomani, nel giorno di San Gennaro, gli africani di Castelvolturno scesero in piazza a migliaia. Chiedendo di essere riconosciuti come essere umani con il diritto di vivere.
Non contarono più le pulsioni razziste di una parte dei loro concittadini castellani Non pesò lo status di irregolari dei tanti che protestarono contro il terrore casalese. Il ministro dell’Interno, il leghista Roberto Maroni, comprese che il nemico non era lo straniero ma l’italiano mafioso. E varò il “modello Caserta”. Di lì a pochi mesi furono arrestati tutti coloro che avevano seguito Giuseppe Setola, il finto cieco, nella sua avventura sanguinaria. Chi partecipò al massacro è stato condannato, con sentenza definitiva, per strage aggravata dall’odio razziale.
Fu il clamore di quei giorni e la repressione che seguì a segnare la fine dell’accordo di cartello che aveva sorretto le gesta del bidognettiano Setola. Che non smise di sparare, uccidere, mettere bombe e pretendere tangenti, ma che rimase sempre più isolato. Anche i suoi più fedeli iniziarono ad abbandonarlo: Oreste Spagnuolo ed Emilio Di Caterino, per esempio, che furono arrestati e subito dopo si pentirono.
Le famiglie Schiavone, Iovine e Zagaria gli garantirono solo un modesta copertura durante le sue fughe rocambolesche ma non le protezioni eccellenti. Fino al 14 gennaio del 2009, quando fu arrestato assieme a un cugino di Antonio Iovine che gli aveva trovato l’ultimo rifugio. E con la sua cattura a cui sono seguite, in neppure tre anni, quelle di Nicola Schiavone, di Iovine e di Michele Zagaria, i Casalesi hanno definitivamente cambiato faccia. L’opzione stragista, alla quale avevano affidato i sogni di rivincita e di rinascita, era miseramente fallita.
Oggi, dieci anni dopo, quel clan che tanto bene abbiamo conosciuto non esiste più nella sua forma tradizionale. Ma non è affatto morto.
Il gruppo Bidognetti: all’ergastolo il capoclan, Francesco, da venticinque anni; carcere a vita per i figli di primo letto Aniello e Raffaele, ma lui non ha mai ceduto e non si è mai arreso allo Stato. Ha sopportato il pentimento del nipote Domenico, della sua amante Angela Barra e poi della sua compagna Anna Carrino, armando la mano dei killer anche contro i loro familiari. Dei suoi soldati chi, dieci anni fa, è stato arrestato solo per estorsione, è prossimo alla scarcerazione. Decine di uomini pronti, se necessario, ad armarsi di nuovo. Certamente a taglieggiare. E pronti a ingrossare le file di quanti sono già tornati in libertà (quasi centoventi persone, nella sola Casal di Principe, tra detenuti ai domiciliari e sottoposti all’obbligo di dimora), modificando però la struttura operativa, molto più “napoletana” e violenta, più da rapina che da mafia.
Il gruppo Schiavone: il capo, Francesco-Sandokan, è in carcere da vent’anni, all’ergastolo e al 41 bis. Detenuti anche i figli Carmine ed Emanuele, ma con condanne più miti. Libero Ivanhoe che non ha seguito il fratello più grande, Nicola (arrestato nel 2010, condannato all’ergastolo) nella scelta del pentimento. Collabora con la giustizia, da oltre quattro anni, anche Antonio Iovine da San Cipriano, da sempre legato alla famiglia Schiavone con la quale condivideva l’apparato militare.
Fa storia a sé il gruppo Zagaria, fortissimo nella sua solida struttura familiare: in carcere il capo, Michele, arrestato a dicembre del 2011, condannato all’ergastolo e al 41 bis; prossimi alla scarcerazione gli imprenditori di casa, Pasquale e Antonio, gli uomini dei rapporti con le strutture ministeriali; già libero il fratello Carmine; in carcere, ma non per molto, le sorelle. La cassaforte è nelle loro mani, affidata probabilmente a un reticolo di invisibili e insignificanti prestanome che hanno provveduto, quasi certamente, ad affidarli a società fiduciarie. Mai approfondita, per esempio, la lista dei micro-imprenditori che nel 2006 avevano affidato le loro risorse allo stesso promotore finanziario di Pasquale Zagaria, il professionista che gli aveva rilasciato la carta di credito priva di collegamento (ufficiale) a un conto bancario: rinviato a giudizio per riciclaggio, è stato prosciolto senza sostanziale accertamento istruttorio.
Eppure tanto ci sarebbe stato da fare, visto che su quei conti confluivano anche i soldi dei fitti delle piazzole delle ecoballe. Forziere, dunque, mai uscito dalla disponibilità della famiglia e pronto a essere utilizzata per la sopravvivenza e la ripresa degli affari. Dei soli Zagaria o del vecchio clan?