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Via Toledo è fritta. Storia della strada che scoppia di gente (e di monnezza)

Via Toledo sta esplodendo di turisti, spazzatura e negozietti di ‘street food’ di basso livello. Pizzette fritte, arancini, crocchè e a terra quintali di cartacce rimosse (nemmeno tutte) la sera. È questo il destino della principale strada del centro di Napoli? È a questo che ci si deve rassegnare?
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Il centro storico di Napoli è fritto. Lo è da molto tempo e non c'entra l'urbanistica isterica, la manutenzione inesistente, le regole ormai lontano ricordo. La puzza di frittura si sente quando imbocchi piazza Trieste e Trento. È la pizza fritta, un concentrato di trigliceridi e bontà. Come il mantello di San Martino: t'accompagna, te la togli un po' di dosso verso il Banco di Napoli ma poi ritorna. Se c'è vento che sale dal mare senti il curry di un ristorante indiano nella zona. Frittatina di pasta, palle ‘e riso, crocchè. Pizza a portafogli, n'altra volta la pizza fritta. E poi odore di hamburgher: non si esce vivi dagli anni Ottanta nemmeno a Napoli, dove i McDonalds sono falliti ma ne resiste ancora qualcuno, abbarbicato alla città come cefalopode luciano di rara resistenza.

Ecco, dunque, via Toledo: un tempo via Roma, mmiez' Napule per quelli della provincia. Dicevamo che è fritta: lo è non solo per la superfetazione di bancarielli di street food (si chiamano così, ora, e fanno affari d'oro). Ma anche perché con la politica di turistizzazione selvaggia il centro storico di Napoli si è per così dire ‘ristretto'. I turisti prendono un B&b (pagato tanto, spesso a nero) in centro, salgono in metropolitana – sperando che passi – percorrono la zona tra i Decumani, le stradine del presepe napoletano, giù verso Port'Alba, piazza Bellini, piazza Dante, via Toledo, piazza Trieste e Trento, piazza Plebiscito, via Console e poi la consolazione del mare. Risparmiamo la storia dell'arteria borbonica, guardiamo oggi un budello che straripa, non riesce a contenere più il flusso disordinato di persone che nei weekend sotto le feste comandate come un fiume in piena la consumano. Fanno affari d'oro i negozietti del frijenno magnanno? Sicuramente. E poi?

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Via Toledo non è un mercato (ma lo è diventato) non è un macello (ma lo è diventato) non è una pista di scooter, non è periferia, non è tante cose e lo diventa nel corso di 24 ore infernali in cui si gonfia e sgonfia, puzza, si libera, scarica a terra quintali di rifiuti in ridicoli cestini parallellepipedi color grigio zoccola. I commercianti contano i quattrini: non se ne vede uno capace di sensibilizzare i propri clienti o se stesso. In fondo che ce ne fotte, domani sarà uguale a ieri. E nel frattempo la passeggiata principale della città diventa un posto da scartare e percorrere veloce. Senza sicurezza, dove per sicurezza s'intende quei dettami anti-terrorismo che al giorno d'oggi ogni città cerca di applicare almeno in minima parte perché non si sa mai. Nella città delle rimozioni abbiamo scordato la storia di via Toledo, ne abbiamo dimenticato la rinascita degli anni Novanta, quando divenne salottino buono e isola pedonale. Oggi è un mercatino, una friggitoria a cielo aperto a pochi spicci. A chi giova? Forse ad una parte dei commercianti (nemmeno tutti). Sicuramente non ai napoletani che la vivono tutto l'anno. E nemmeno ai turisti che assaggiano un "pezzotto": pure la pizza fritta, infatti, fa abbastanza schifo.

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Giornalista professionista, capo cronaca Napoli a Fanpage.it. Insegna Etica e deontologia del giornalismo alla LUMSA. Ha una newsletter dal titolo "Saluti da Napoli". È co-autore dei libri "Il Casalese" (Edizioni Cento Autori, 2011); "Novantadue" (Castelvecchi, 2012); "Le mani nella città" e "L'Invisibile" (Round Robin, 2013-2014). Ha vinto il Premio giornalistico Giancarlo Siani nel 2007 e i premi Paolo Giuntella e Marcello Torre nel 2012.
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