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Denuncia di stupro di gruppo a S Giorgio a Cremano

Stupro Circum, le bugie della ragazza e i tre “mostri” già condannati dal tribunale del web

Dopo la scarcerazione dei tre giovani accusati nei giorni scorsi di aver stuprato una ragazza nella stazione della Circumvesuviana di San Giorgio a Cremano (Napoli) sono arrivate le motivazioni del Tribunale del Riesame. Ma, prima della decisione dei giudici, c’è stata un’Italia che ha confuso il giudizio morale con il codice penale.
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I tre ragazzi accusati dello stupro della 24enne di Portici avvenuto nell'ascensore della stazione di San Giorgio a Cremano della Circumvesuviana.
I tre ragazzi accusati dello stupro della 24enne di Portici avvenuto nell'ascensore della stazione di San Giorgio a Cremano della Circumvesuviana.
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Alla fine, la verità era come la lettera rubata di Edgar Allan Poe, sotto gli occhi di tutti. Era nei racconti progressivi della ragazza che ha denunciato lo stupro nell'ascensore della stazione della Circumvesuviana di San Giorgio a Cremano, nei dettagli modificati intervista dopo intervista, nella brutale aggressione che, via via, diventa l’incontro chiarificatore con un ragazzo gentile, nell’ascensore mantenuto aperto a forza da uno dei violentatori e che poi invece è chiamato da lei stessa quando è in loro compagnia, nel rifiuto veemente del contatto fisico che si trasforma nel consenso a uno solo dei tre. Verità mutevole, dunque, e sempre meno dissimile da quanto è scritto nelle carte, ora pubbliche, dei dieci minuti di sesso rapinato nella stazione di San Giorgio a Cremano. Che rapinato non fu. Proprio come hanno sempre detto i tre giovani liberati dal Tribunale del Riesame di Napoli. Non c’entrano nulla le esigenze cautelari: il niet al carcere è dovuto all’assenza di indizi di colpevolezza. Se qualcosa è accaduto, ed è ascrivibile al codice penale, si tratta solo di atti osceni in luogo pubblico: in un ascensore aperto sulla  strada, sotto gli occhi dei pendolari e delle telecamere che hanno registrato spezzoni interi della storia. Ma è solo un paradosso.

Non è colpa di giudici buoni, o collusi, o corrotti, come pure ha già sentenziato il tribunale del web. Non è colpa neppure della deriva restauratrice di questi tempi neomillenaristi e antifemministi. Dei magistrati che hanno annullato le ordinanze di custodia cautelare si conoscono l’esperienza, il rigore, la severità. Semplicemente, banalmente, tristemente, la ragazza ha mentito. Come ha fatto tante altre volte a causa della sua malattia, un gravissimo disagio psicologico raccontato dal fascicolo a suo nome aperto dal Dipartimento di salute mentale che l’ha in cura da tempo, almeno tre anni. Un disagio che recentemente l’aveva portata anche in una casa di cura, da cui non è ancora guarita e che si manifesta così, con disordine sessuale, menzogne compulsive, racconti fantastici, bugie seriali.

Sembra brutto anche dirlo, ma per i medici lei è una mitomane. Certo, poteva aver detto la verità almeno su quanto accaduto il 5 marzo, e anche questo è stato valutato ma invece le telecamere la smentiscono in ogni dettaglio del suo racconto. E le perizie medico-legali, anche quelle dicono qualcosa di diverso dalle semplificazioni mediatiche di questi giorni: nessuna traccia di violenza fisica, stato di choc compatibile con lo stupro attestato dagli specialisti del centro “rosa” che l’hanno assistita dopo il ricovero in ospedale ma anche con gli stati d’ansia di cui soffre frequentemente, fatto contenuto nella cartella clinica del Csm e che non è stato affatto valutato. Perché è indubbio che lei abbia bisogno di cure, assistenza, supporto psicologico ma non per questo, non necessariamente, è stata vittima di uno stupro.

Restano i tre “mostri”, che il sentiment della rete ha già condannato senza appello, possibilmente a morte o, almeno, alla castrazione chimica. Nella migliore delle ipotesi, si scrive all’indomani delle motivazioni del Riesame, avrebbero abusato di una ragazza in difficoltà: anche questo è stato valutato ed escluso dai giudici, ma prima ancora dai medici che l’avevano in cura, avendo questi descritto la ragazza come presente a se stessa, con una intelligenza vivace e pronta, con un disagio non visibile nel corso di una frequentazione occasionale. Di loro si conoscono nomi, cognomi, indirizzi, amicizie, immagini. Dopo la liberazione sono tornati nelle loro case dalle quali non possono uscire, tali e tante sono le minacce subite.

Difficilmente saranno processati o comunque condannati: la credibilità della ragazza, unico elemento richiesto dalla legge perché la denuncia della parte offesa (in assenza di altro) abbia valore di prova, è minata alla radice dalla sua drammatica storia clinica, dalla superficialità apodittica dei test medici,  dai video delle telecamere di sorveglianza. E difficilmente, però, saranno considerati innocenti, almeno fino a quando prevarrà la sbornia piazzaiola tanto simile alla canea che accompagnava gli autodafé dell’Inquisizione. E fino a quando si continuerà a confondere, come nei sistemi teocratici di cui qualcuno ha nostalgia anche in Italia, il giudizio morale con il codice penale, la colpa d’autore con il principio di legalità che regolamenta il nostro sistema penale.

In una monografia pubblicata negli Annali della Storia d’Italia di Einaudi, parlando del caso Girolimoni – arrestato con clamore, liberato in sordina, con un cognome che è diventato sinonimo di pedofilia e non di ingiustizia – e dei “mostri” della nostra letteratura giudiziaria, Giangiulio Ambrosini, giurista torinese, ex giudice in Cassazione, scriveva: “L’arresto del mostro è una liberazione collettiva: le prove esibite assumono un valore oggettivo, sono indiscutibili […].  L’esigenza di trovare un colpevole coinvolge al tempo stesso investigatori e cittadini. La necessità di individuarlo a tutti i costi supera ogni ragionevole ipotesi di giustizia”. E poi ammoniva: “Se tutto ciò è vero in tempi di democrazia, a maggior ragione lo è quando giustizia, garanzie del cittadino, ricerca della verità, sono beni sacrificabili ad altri valori, di natura eminentemente politica, come il dimostrare l’efficienza di un regime, il simulare la capacità di garantire la sicurezza sociale, il pretendere di essere in grado di rendere immediatamente giustizia”.  La pretesa, cioè, che hanno i commentatori dei social, che il più delle volte non solo non hanno letto neppure una carta giudiziaria ma che non avrebbero neppure la capacità di comprenderla. Preoccupano, nel caso in questione, i post forcaioli apparsi pure sulle pagine di esponenti delle forze dell’ordine o di loro associazioni, seguiti generalmente da inviti a farsi giustizia da sé avendo incluso nelle élite da abbattere anche i magistrati.

Quando passerà la sbornia, perché un giorno passerà, ci sarà molto da lavorare per instradarsi di nuovo sui binari costituzionali delle garanzie e del diritto. Nel frattempo, dobbiamo invece prendere atto che in questa vicenda non ci sono vincitori ma solo sconfitti: la ragazza, prima di tutto, assecondata nella sua sovraesposizione pubblica anche da chi conosceva la sua malattia e avrebbe dovuto invece, coltivare il dubbio e mettere la sordina, aspettando la verifica dei giudici. Ma anche i cosiddetti esperti, che hanno acriticamente registrato le sue dichiarazioni senza vaglio psicologico, senza contestualizzarle e metterle in sicurezza, parlando anch’essi alla pancia del popolo. E tutti quanti noi, che abbiamo abdicato alla prudenza in cambio di un clic.

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Rosaria Capacchione, giornalista. Il suo lavoro di cronista giudiziaria e le inchieste sul clan dei Casalesi le sono costate minacce a causa delle quali è costretta a vivere sotto scorta. È stata senatrice della Repubblica e componente della Commissione parlamentare antimafia.
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